copertina di “Brandt Icons: The Bill Brandt Archives”Bill Brandt è il più illustre dei fotografi inglesi del Novecento, quantunque sia tedesco di nascita. La sua produzione è stata multiforme ed egli si è abilmente confrontato con generi come il reportage, il ritratto ed il paesaggio, oltre al nudo per il quale è soprattutto noto.

La sua lunga carriera copre un cinquantennio, nel corso del quale egli muta il suo stile, restando però sempre coerentemente legato ai principi ideologici ed estetici cui aveva aderito in giovane età, entrando in contatto col Surrealismo attraverso Man Ray ed attraverso riviste importanti come “Littérature” e “La Révolution Surréaliste”.
Di questa corrente che non è solo artistica, ma anche di pensiero, Brandt apprezzerà l’ispirazione psicoanalitica e metafisica, non meno che quella marxista per il suo anelito verso la giustizia sociale, ma più d’ogni altra cosa amerà e condividerà sempre la totale libertà d’espressione creativa. Per questo non si considererà mai propriamente un fotografo, bensì un artista.
Fin dai primi reportage rivela tale inclinazione, per onorare la quale egli non prova alcuno scrupolo nel chiedere ad amici o parenti di posare per lui ricreando situazioni tipiche per l’epoca, piuttosto che riprenderle dalla realtà; scatti di tale natura come “Parlour Maids” o “The Cocktails in the Surrey Garden”, appaiono poi candidamente mescolati a riprese di fatti reali nel suo “English at Home”.

I suoi inizi sono fortemente influenzati dalla scoperta delle immagini di Atget: la loro semplicità ed il senso metafisico, che esse emanano, affascinano Brandt. Nel suo saggio, apparso nel libro “Camera in London”, egli dichiara apertamente il proprio interesse per certe atmosfere oniriche, da quadro di De Chirico (ma anche così tipicamente atgetiane), evocanti di un senso di solitudine umana e di lontananza. La capacità di cogliere tali situazioni, che passano inosservate agli occhi della gente comune, sarebbe, secondo questo scritto, appannaggio del buon fotografo, e frutto di un distacco, grazie al quale il mondo può apparire sempre nuovo ed inconsueto ai suoi occhi.
Un peso sull’ispirazione formale di Brandt, l’avranno pure film quali “Un chien andalou” e “L’âge d’or” di Luis Buñuel e Salvador Dalì.
La sua fotografia ha, in quel momento storico, come scopo la lotta contro il capitalismo fondato sulle sperequazioni di classe, e contro i condizionamenti repressivi della borghesia, tipica del pensiero surrealista, ma anche l’ambiente socialdemocratico col quale era stato in contatto a Vienna.
La protesta brandtiana non è però portata avanti con modalità plateali e manifestamente provocatorie, è bensì sottile e pervasiva nell’apparente innocenza degli accostamenti che egli opera fra immagini d’opulenza e immagini di miseria nera.

Non reporter, ma umanista, egli si propone lungo l’arco degli anni della Depressione e della Guerra Mondiale, nella veste di “comunicatore sociale”, che opera con i mezzi di una fotografia d’ispirazione surrealista che sa ben focalizzare gli emblemi della condizione umana.
La sua presa di posizione, però, più che politica è culturale, ed il suo impegno sociale è ampiamente condiviso dall’ambiente intellettuale del tempo: la sua attenzione verso le fasce svantaggiate della società è la stessa che appare nelle opere di scrittori come Orwell o J.B. Priestly, che in “An English Journey” descrive puntualmente il clima di desolazione che Brandt ha saputo acutamente trasmettere con le sue immagini di Jarrow, cittadina mineraria del nord dell’Inghilterra con un triste primato di disoccupazione.
Per meglio veicolare il proprio messaggio, Brandt opera sempre con perizia guidando lo sguardo dello spettatore esattamente laddove desidera. A sua disposizione ha mezzi tecnici nuovi per l’epoca come il flash, che usa d’appoggio alla luce ambiente, e la Rolleiflex, una reflex biottica che egli sceglie perché alla maneggevolezza unisce un formato (5,7 x 5,7) adatto ai tagli in stampa e all’accurato lavoro di camera oscura cui si dedica personalmente. Nel corso degli anni Trenta, non si discosta troppo dai canoni di stampa convenzionali, che richiedevano una piena leggibilità dell’immagine ed un’estesa gradazione di toni di grigio, ma in seguito preferirà l’interpretazione più espressionistica d’un bianco e nero dai forti contrasti, e non esiterà neppure a “rifinire” le foto con poco ortodossi ritocchi a penna.
Affermando la propria libertà creativa, scrive: “La Fotografia non ha regole. Non è uno sport. E’ il risultato che conta, non come lo si è ottenuto”.
E’ la continua esigenza di guardare il mondo con occhi sempre nuovi, che lo porta ad acquistare una Kodak di grande formato con un obiettivo grandangolare; e il mutare delle condizioni che lo hanno portato ad eleggere il reportage a propria forma d’espressione personale, lo spinge gradualmente a dedicarsi a tutt’altro.

A questo punto della sua carriera, l’impronta del surrealismo diventa più chiaramente manifesta anche al livello estetico e formale.
Perfino nei paesaggi, che egli fotografa in omaggio alla propria passione letteraria, e che sono spesso indicati come un trionfo dello spirito gotico e romantico, un occhio attento può scoprire diversi spunti d’ambiguità e straniamento surreale; esemplare a tal proposito la sua quasi magrittiana “Isola di Skye” del ’47.
Nei ritratti di celebrità della cultura (lavoro intrapreso per “Lilliput” e portato avanti a lungo per proprio conto), l’approccio surreale si direbbe invece più metodologico che concettuale: riguarda, infatti, soprattutto composizioni ed effetti luministici scelti a svelare l’animo col quale tali personaggi si appressano alle loro attività creative; un debito è qui palese anche verso la cinematografia hitchcockiana e wellesiana, in particolare verso film come “Io ti salverò” (celebre anche per una sequenza onirica progettata da Dalì) e come “Quarto Potere”, con i suoi particolari piani di ripresa.
Sono i nudi l’espressione matura di una nuova e più intrigante visione di Bill Brandt, laddove forma e contenuto trovano una perfetta fusione.

Spesso superficialmente accostati alle foto ottenute da Kertész attraverso specchi deformanti, i nudi brandtiani non sono un gioco ottico e di forme fine a se stesso; né un punto d’arrivo definito, ma un’infaticabile ricerca che si evolverà fino agli ultimi anni di vita dell’autore: dai primi tentativi, scattati in interni, in cui le figure ambientate si mescolano a più astratti close-up su porzioni di corpo; agli innesti di quelle che sono ormai pure forme anatomiche su paesaggi marini; fino agli ultimi corpi femminili, ripresi sotto luci drammatiche e con attributi iconografici degni di Ernst e Magritte.
Più che mai creatore d’immagini, Brandt giunge finalmente alla completa libertà dai canoni formali della fotografia, trovando nel corpo femminile una materia duttile, la quale nelle sue mani si espande talvolta come nella scultura di Moore, talaltra si contrae divenendo elemento paesaggistico e geologico; soggetto ideale per una riflessione densa di simbolismi psicoanalitici – dal freudiano unheimlich agli archetipi junghiani – sulla vita stessa.

Rosa Maria Puglisi

già pubblicato su Cultframe, insieme ad una nota biografica e altre informazioni