L’arte di Cindy Sherman
La sfuggevole complessità di Cindy Sherman, e la sua controvertibile posizione intellettuale, sembrano simboleggiate con grande acume da un “ritratto”, che Annie Leibowitz dedica alla collega anni or sono: in esso, per la “legge del contrappasso”, sembra perfettamente logico che debbano apparire una dozzina di donne dai capelli corti, e in abiti maschili, contro un fondo totalmente neutro.
Sono di varia natura i problemi che sorgono tentando di analizzare la sua opera multiforme, ma sempre intrinsecamente coerente.
Va premesso, innanzi tutto, che Sherman ha definito se stessa non una fotografa, ma piuttosto un’artista performativa, e le sue immagini sono state definite dal critico Verena Lueken “performance congelate”. Il suo uso del medium fotografia è, però, per così dire, spiccatamente “fotografico”: i suoi scatti non sono semplice documentazione di performance, che hanno vita propria. Le sue messe in scena viceversa nascono per essere riprese dalla macchina fotografica e sono strettamente condizionate dal codice linguistico peculiare al mezzo: composizione, formato, inquadratura, uso espressivo delle ombre o dei colori.
Il percorso artistico di Sherman s’inserisce in ogni caso nelle tendenze, diffuse presso le neoavanguardie degli anni Settanta, all’indagine metalinguistica e all’uso di riferimenti puntuali alla cultura popolare.
La sua prima opera di rilievo, “Untitled Film Stills“, prende spunto dai più triti schemi della comunicazione cinematografica, rappresentati da Sherman come “pose” tratte da immaginari film degli anni Cinquanta, stranamente familiari grazie alla tipicità delle situazioni e dell’aspetto delle protagoniste, impersonate sempre dall’autrice: un’operazione d’indubbio fascino ed interesse visivo, accolta con entusiasmo da molti critici, ma che risulterà però agli occhi di molte femministe ambigua e discutibile.
Allo scorcio degli anni Settanta, è in corso, infatti, un aspro dibattito sulla predominanza di una cultura maschile (e maschilista) dalla quale le intellettuali sono chiamate a prendere le distanze, anche con l’uso di linguaggi espressivi più consoni alla sensibilità femminile, allo scopo di creare una cultura alternativa. La posizione di Sherman, in tale contesto, è considerata, contrariamente alle sue affermazioni, del tutto acquiescente verso gli stereotipi imposti alla donna dalla società: l’operazione della fotografa (che già in quanto tale non è vista di buon occhio, perché si serve d’un mezzo tradizionalmente maschile, legato ad una percezione prettamente visiva del mondo, tipica dell’uomo) sembrerebbe anzi consolidare tali cliché, piuttosto che opporvisi.
Le donne di Sherman sono chiaramente tipi e non donne reali, così come sono tipiche le ambientazioni da film che le accolgono, ispirate ai “B movie” (pellicole di second’ordine). La sua interpretazione è parodistica, ma sarebbe colpevole secondo le femministe di non introdurre nelle proprie immagini nessuna chiara presa di posizione politica e culturale, limitandosi a ripresentare l’ennesima “proiezione dell’inconscio maschile”.
Nelle 69 immagini di piccolo formato in bianco e nero, che costituiscono “Untitled Film Stills” appaiono prefigurati la maggior parte dei temi che caratterizzeranno le sue successive creazioni artistiche: l’uso del travestimento; la parodia degli stereotipi imposti dalla società alla donna; il ricorso ad immagini mutuate da un immaginario mediatico comune; l’imitazione di codici linguistici appartenenti alla cosiddetta sottocultura; lo “spaesamento” delle ambientazioni.
Al primo lavoro fa seguito una seconda serie dedicata ancora al cinema ed i suoi finti paesaggi costituiti da retroproiezioni (”Rear Screen Projections”): è da notare come l’uso del colore, introdotto in queste fotografie, abbia la funzione di staccare la protagonista dal fondo; i suoi atteggiamenti rimangono invece come negli scatti precedenti inconsapevoli dell’osservatore, al quale viene dunque proposto un ruolo voyeuristico.
Per la rivista “Artforum” Sherman crea nel 1981 “Centerfolds or Horizontal”, una delle sue opere più contestate, nella quale indaga i codici visivi della fotografia creata per le riviste pornosoft, e dove l’immagine della donna grazie ad inquadrature orizzontali e a riprese dall’alto risulta fragile ed umiliata. Quasi in risposta alle critiche nasce invece “Pink Robes”, gruppo d’immagini con un tema analogo, nelle quali al contrario un formato verticale, lo sguardo diretto all’obiettivo e l’espressione della modella, nonché l’uso più espressionistico del colore, forniscono una chiave di lettura ben diversa.
Stesse modalità adotterà per le foto di moda che le vengono commissionate a più riprese da stilisti e riviste del settore, nelle quali l’accento è posto, oltre che sulla bizzarria delle modelle, su una particolare impressione di artificialità da mascherata.
L’uso del travestimento ricorre ossessivamente nell’opera di Cindy Sherman, ed è stato interpretato, oltre che come una ricerca all’interno di un discorso sul gender, come una ricostruzione dell’identità personale in un continuo sdoppiamento (coerente, comunque, all’istanza di “decostruzione” dei vari linguaggi artistici, che miticamente – e psicanaliticamente – nascerebbero dalla contemplazione dello specchio e nella formazione di un doppio, altro da sé).
I richiami alla psicanalisi, ancor più che all’analisi proppiana della favola (grazie alla quale non appaiono riferimenti diretti ad alcuna storia nota, ma il genere letterario appare evocato attraverso i suoi topoi) sono poi molto evidenti in “Fairy Tales”, opera commissionatale dalla rivista “Vanity Fair” nell’85.
Con le successive serie di fotografie, a partire dall’allucinata digressione quasi aniconica di “Disasters” (dove presenta immagini ributtanti di quelli che si scoprono esser cibi, ma sembrano i poveri resti di qualche tragedia), e attraverso l’asettico orrore in “Sex Pictures” (dove riassembla modelli anatomici che mimano la pornografia, in questo modo smitizzandola e denunciandone la natura fredda ed anonima, persino macabra), Sherman pare approdare infine ad una visione surreale della realtà e le sue ultime immagini (orrifici assemblaggi per lo più di vegetali dai quali sembrano scaturire bambole woodoo) hanno tutti i connotati di un certo bretoniano humor nero.
Gli spunti surreali hanno percorso sin dall’inizio la sua opera nella forma ora del dépaysage delle ambientazioni, ora di un pervasivo senso dell’onirico, ma acquistano infine un peso preponderante e sembrano spingere la figura della fotografa-protagonista dell’immagine in secondo piano. Gli oggetti invadono la scena e “arbitrariamente accostati”, danno vita ad una realtà grottesca, al limite del carnascialesco, e per questo la critica ha infine fatto ricorso a Bakthin ed ai sui studi su Rabelais, allo scopo di leggere in siffatti gruppi d’immagini il senso di un’epoca decadente presaga di un cambiamento epocale.
Ma l’autrice, nel miglior stile surrealista, ha sempre rifiutato di essere incasellata intellettualmente, pretendendo, anzi, di essere in realtà del tutto estranea alla cultura istituzionalizzata, della quale ha anzi voluto prendersi un po’ gioco, e di attingere, invece, a piene mani ad un più attuale immaginario collettivo mediatico pieno di riferimenti, sia pure “involgariti”, a codici più alti.
Le sue operazioni concettuali sono rivendicate, dunque, come proprie intuizioni personali, anche inscrivendosi perfettamente in un generalizzato clima culturale postmoderno, così che persino il ricorso alla citazione in “History Portraits”, serie che ricalca pedissequamente la ritrattistica classica, non sarebbe altro che il logico evolversi di un percorso da sempre basato sull’imitazione di ogni possibile linguaggio visuale, avendo tutti agli occhi di Sherman pari valore comunicativo.
Rosa Maria Puglisi
[Pubblicato precedentemente su Cultframe]
Biografia
(redatta per l’Enciclopedia delle donne)
«Quando andavo a scuola cominciava a disgustarmi la considerazione religiosa e sacrale dell’arte, e volevo fare qualcosa … che chiunque per strada potesse apprezzare… Ecco perché volevo imitare qualcosa di appartenente alla cultura, e nel contempo prendermi gioco di quella stessa cultura. Quando non ero al lavoro ero così ossessionata dal cambiare la mia identità che lo facevo anche senza predisporre prima la macchina fotografica, e anche se non c’era nessuno a guardarmi, per andare in giro».
È l’ultima di cinque figli; i suoi genitori, non più giovanissimi – il padre fa l’ingegnere, la madre è insegnante di lettura – decidono di trasferirsi ad Huntington, nell’isola di Long Island, dove Cindy Sherman trascorrerà un’infanzia tranquilla caratterizzata da una viva passione per il travestimento, che mai la abbandonerà.
Iscrittasi alla SUNY (State University of New York) di Buffalo per studiare Arte, viene respinta all’esame preliminare di fotografia per insufficienze tecniche nella stampa; si dedica così inizialmente alla pittura, dipingendo autoritratti e riproduzioni di foto tratte da riviste. Fra i suoi compagni di studi c’è Robert Longo, artista fortemente influenzato dalla cultura popolare e dai mass media, col quale stringe una relazione amorosa e che la introduce nel mondo dell’arte. Nel 1974, insieme a Charles Clough, Nancy Dwyer e Michael Zwack, i due fondano a Buffalo “Hallwalls”, uno spazio espositivo creato sulle pareti esterne dei loro studi, ubicati nell’atrio di un’ex fabbrica di ghiaccio.
Sono del ’75 i suoi primi esperimenti fotografici noti, fra questi i cinque autoritratti in veste di differenti personaggi della serie Untitled A-E, celebrata come anticipazione del suo futuro lavoro. Ma è solo dopo la laurea, nel ’76, che – accantonata l’idea di produrre animazioni cutout – si dedica seriamente alla fotografia: si trasferisce a New York, in un attico di Manhattan, dove lavora a due complesse serie d’immagini (32 in tutto), rimaste inedite fino al 2000, intitolate rispettivamente “Bus Riders” e “Murder Mystery People” per le quali posa camuffata, recitando i ruoli più disparati davanti a uno sfondo bianco, sul quale la sua figura appare “scontornata”.
L’anno dopo inizia “Untitled Film Stills”, la celeberrima serie ispirata ai B movie degli anni Cinquanta che la renderà celebre in tutto il mondo e sarà acquistata dal MOMA di New York nel ’95 per oltre un milione di dollari. Vi si dedica fino al 1980, assistita – pare – da Longo, qualche volta esecutore degli scatti progettati da Sherman. Sono 69 immagini in bianco e nero, di piccolo formato, e prefigurano già tutti i temi che contraddistingueranno la sua successiva produzione: l’autoritratto, l’uso del travestimento, la parodia degli stereotipi imposti dalla società alle donne dalla cultura o dalla sottocultura e dai rispettivi immaginari mediatici, lo “spaesamento” delle ambientazioni.
In bilico fra la registrazione di performance e la vera e propria fotografia, il suo lavoro viene da subito inquadrato nell’ambito delle tematiche del femminismo. Le più aspre critiche, tuttavia, giungeranno allora proprio dall’ambiente femminista, che l’accuserà di non prendere alcuna posizione politica e culturale ma addirittura di perpetuare un certo immaginario, col proporre un’ennesima “proiezione dell’inconscio maschile”. Per contro l’artista affermerà di aver seguito, piuttosto, il proprio istinto e assecondato l’antico personale gusto per il travestimento e l’interpretazione di personaggi immaginari; molteplici sono – a tal proposito – disorientanti interviste, nelle quali afferma di essere estranea alla cultura istituzionalizzata, e colpita dalle interpretazioni che la sua arte suscita nei critici.
Nel 1980 Cindy Sherman inizia un durevole sodalizio con la Metro Pictures Gallery di New York. Nuove serie d’immagini si susseguiranno senza sosta, sempre senza titolo ma ora a colori e via via sempre più grandi: ”Rear Screen Projections” (1980), ancora ispirata al cinema; la contestata “Centerfolds or Horizontal”(1981) – commissionata dalla rivista “Artforum” che rifiuterà di pubblicarla – dove l’artista indaga i codici visivi della fotografia pornosoft con inquadrature orizzontali e riprese dall’alto che sembrano renderla fragile e umiliata. In risposta alle polemiche, arriva “Pink Robes”(1982), dove al contrario l’utilizzo del formato verticale e altri accorgimenti comunicativi danno forza all’immagine femminile.
“Fairy Tales”(’85) – commissionatale da «Vanity Fair», che non vorrà pubblicarla – è un’incursione nel mondo delle fiabe, e il punto di partenza di una nuova fase di ricerca personale, che porta l’autrice ad allestire per i suoi scatti una realtà spesso grottesca e dai risvolti addirittura carnascialeschi, connotata a tratti da un surreale e perturbante humor nero. Si susseguono, negli anni Ottanta e Novanta diverse serie nelle quali, l’autoritratto e il mascheramento lasciano man mano spazio ad assemblaggi di oggetti e materiali che evocano altro, spesso in forma macabra e ributtante: come i cibi corrotti di “Disasters”(’86-’89) o i modelli anatomici di “Sex Pictures”(1992) e di “Horror and Surrealist Pictures” (1994). In questi anni collabora anche a più riprese con stilisti, come Marc Jacobs.
Un intermezzo del tutto particolare è costituito da “History Portraits (’89-’90), lavoro per il quale torna a ritrarre se stessa travestita, per evocare pedissequamente (quanto artificiosamente) i modelli della ritrattistica dei Maestri della Storia dell’Arte. Tale serie nasce da un lungo soggiorno a Roma con Michel Auder, videoartista francese che Cindy Sherman ha sposato nel giugno dell’1981. Il loro matrimonio durerà circa 16 anni. Nel corso degli anni egli la riprenderà in studio, intenta nell’allestimento dei suoi set fotografici, per un lungometraggio (sorta di diario personale per immagini), che contribuirà – si dice – ad incrinare il loro rapporto, rivelando “senza maschera” quest’artista che del travestimento ha fatto il proprio nucleo espressivo, forse anche allo scopo di proteggere la propria individualità.
Un’analoga e peggiore disavventura le capiterà, tuttavia, con un successivo partner, Paul H-O (Hasegawa-Overacker); intervistatore d’assalto di celebrità del mondo dell’arte per suo show televisivo, dal titolo GalleryBeat, costui la riprenderà spesso nella vita quotidiana per produrre infine un risentito documentario, Guest of Cindy Sherman uscito nel 2009, dopo la rottura della relazione con lei, allorché Sherman è già da due anni compagna del musicista David Byrne.
Anche il cinema ha attratto Cindy Sherman: nel 1997 si sperimenta come regista dirigendo in una curiosa commedia horror intitolataOffice Killer, accolta favorevolmente dalla critica, ma tiepidamente dal pubblico; nel ’98 è apparsa in un cameo nella commedia Peckerdi John Waters.
Un rallentamento nell’instancabile vita artistica della fotografa – frattanto celebrata in tutto il mondo come una delle più influenti personalità per l’arte contemporanea – avviene al volgere del Millennio, segnato dall’11 settembre 2001. Vi contribuisce forse anche una qualche esitazione nel cimentarsi con l’avvento del digitale. Una destabilizzante risposta alle suggestioni tecnologiche, e alle ansie di quel clima sociale, sarà la serie dei “Clowns”, pubblicata nel 2004, scattata in pellicola ma largamente manipolata con mezzi digitali, parabola che vuol mostrare “i complessi abissi emotivi di un sorriso dipinto”.
Definitivamente convertitasi al digitale, con il suo più recente lavoro sul “ritratto ufficiale” (del 2009), Cindy Sherman torna a parlare di stereotipi femminili e a impersonarli, volgendo la sua attenzione a quelle attempate signore dell’alta società, sprezzanti e sicure dei loro privilegi come della mascherata pacchiana dei loro abiti e del loro maquillage, nelle quali – a sua detta – si rispecchia per età, ma fortunatamente non riesce a riconoscersi.
Rosa Maria Puglisi
Could you please allow me to take this special and amazing photo in order to use it for my blog. Thanks so much.
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The copyright of the photo is not mine, but I believe it’s not a problem to use it, because is a book cover!
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Salve!
mi chiamo Chiara e sono una studentessa (anzi, una tesista!) dell’Accademia di belle Arti di Napoli.
Volevo gentilmente chiederle se
(siccome la mia tesi verserà su Cindy Sherman, e poichè il materiale in italiano disponibile sull’argomento è piuttosto scarsino)
le darebbe fastidio che utilizzassi quest’articolo,
con la dovuta segnalazione della “maternità”,
per la mia tesi?
Trovo superfluo (ma lo dico comunque!) aggiungere che mi è davvero piaciuto l’articolo e l’ho trovato anche molto utile! (…altrimenti nonle chiederei il permesso di usarlo!)
Scusi lo sproloquio,
la ringrazio e la saluto
Chiara
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Ti ringrazio per l’apprezzamento! Ovviamente puoi utilizzare l’articolo con le sole limitazioni della licenza Creative Commons: attribuzione (ti ricordo che devi segnalare anche la fonte, non solo il mio nome!), uso non commerciale (nessun problema quindi per una tesi), divieto di trasformare o alterare il testo (ma sei libera di citare sia in parte che per intero).
Nessuno sproloquio! 😉
Buon lavoro e in bocca al lupo per la tua tesi.
RM
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l’interesse delle fotografie di Sherman consiste nel fatto che esse si concentrano sulle maschere senza commentare direttamente significati sociali che non siano la stessa attività di mascheramento
Harvey David , la crisi della modernità
Chiedo che qualcuno mi aiuti a capire
Grazie
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Ciao. Non ho letto il libro dal quale hai estrapolato quella frase, quindi posso solo fare un’ipotesi relativa a quel particolare passo. Si direbbe che il libro parli del Postmoderno, corrente alla quale Cindy Sherman viene ripetutamente accostata dalla critica.
In particolare, immagino che sottolinei il fatto che nell’opera di Sherman vengono spesso messi in evidenza attraverso il mascheramento una serie di stereotipi sociali relativi alla donna. Nei suoi autoritratti la fotografa impersona tali stereotipi e, così facendo, li rende evidenti per quello che sono, cioè maschere sociali. Non istituisce evidenti correlazioni negative o positive. Le maschere vengono esibite in quanto tali, non a scopo di denuncia sociale riguardo alla condizione femminile.
Potrei aggiungere, tuttavia, che secondo me il suo approccio è cambiato nel corso degli anni e a volte l’attività di mascheramento è diventata molto prossima alla parodia.
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