
E’ cosa risaputa il fatto che la fotografia, fra i mezzi creati dall’essere umano per “figurarsi” la realtà, viva un fondamentale paradosso: quello di essere, da un canto, pura denotazione per via del troppo stretto rapporto col proprio referente (di cui diviene analogon, “messaggio senza codice”), dall’altro, di portar con sé il bagaglio di un valore connotativo inevitabilmente codificato e legato tanto all’ambito culturale quanto a quello personale, oltre che all’intenzionalità, di chi scatta. Sempre in bilico fra semplice registrazione e “rappresentazione” (restituzione di un’immagine mentale) del mondo, l’ago di questa ideale bilancia pende, così, da una parte o dall’altra a seconda del fotografo.
Nel caso di Marianna Cappelli, esso pende decisamente verso la ricostruzione di un’immagine mentale, anzi verso la re-invenzione della realtà.
Immagini fortemente soggettive caratterizzano la sua produzione in tutta la varietà delle sue espressioni, spaziando questa dal reportage alla moda, dal ritratto all’illustrazione di testi scritti.
La realtà che ci restituisce, sotto forma di scatti dai tagli decisi e talora persino drastici – fino alla dissecazione dell’unitarietà degli oggetti e delle figure umane ritratte -, è quella di uno sguardo curioso che indugia sui dettagli per capire, e invita gli altri a guardare con quella stessa attenzione.
Un sottile spaesamento coglie chi lo fa e si lascia andare alle suggestioni delle sue immagini: che si tratti della realtà di un gioco infantile, che si tratti della mise en scéne di un servizio di moda, o di uno scatto rielaborato per dare una forma all’immaginazione di questa artista. Qualcosa sembra essere sul punto di accadere o – meglio – di manifestarsi. Qualcosa emerge indefinitamente oltre la realtà catturata dalla macchina fotografica.
Concorre a determinare tale sensazione una sorta di ambiguità presente nel “messaggio visivo”, che esse strutturalmente veicolano: grazie a un punto di vista sempre ancorato in una posizione ortogonale al soggetto, che pertanto risulta privo di “pecche” prospettiche, esse risultano più semplici e immediate alla percezione, esibendo così una plausibile “evidenza di oggettività”; la loro immediatezza e il loro realismo risulta, tuttavia, subitamente contraddetto da un’instabilità interna, un “fremito” interno alle immagini (moto fisico e insieme moto dell’animo), che le pervade in vario modo.
La scelta di evocare il movimento; o magari quella – in particolare nei servizi di moda – di creare attraverso le luci e l’espressione delle modelle la realtà di un mondo percorso da un’inquieta vita interiore, ma inspiegabilmente congelato in atmosfere “perturbanti”; talora la voglia di giocare con le figure umane, piegandole, contorcendole come in specchi deformanti di kertesziana memoria, quasi che la fantasia – altrove contenuta a forza – cercasse lì di debordare oltre ogni limite imposto dalla verosimiglianza fotografica, rivelando la natura fluttuante di ogni immagine.
Ogni cosa nelle opere di Marianna Cappelli rimanda ad un bagaglio culturale alimentato da testi letterari e visivi intrisi di realismo magico, ma – soprattutto – ad una attitudine personale: quella a spogliarsi da ogni conoscenza precostituita, per guardare al mondo con lo stesso spontaneo incanto che potrebbe provare un bambino al percepirne veritieramente ogni contraddizione.
Rosa Maria Puglisi
(Pubblicato anche su Fotologie)