A quanti non l’abbiano notato, segnaliamo come l’auspicio che un dibattito sul reportage s’attivasse, si è parzialmente realizzato (vedi commenti a “che cos’è mai il reportage?”).

Devo dire, tuttavia, che la nostra sensazione è che qualcosa sembra sfuggirci quando cerchiamo di argomentare l’attuale situazione.

Ci sbaglieremo, ma in fondo le posizioni di chi s’è voluto schierare non sembrano necessariamente divergenti, al di là di un accendersi dei toni, che testimonia – più che un’opposizione di fronti – un interesse vivo e sincero per l’argomento e magari uno “stile dibattimentale” molto contemporaneo, per fortuna totalmente nei confini della “civile discussione”, a differenza di troppi dibattiti quotidianamente diffusi dai media.

Quando Maurizio De Bonis segnala nel lavoro di Paolo Pellegrin “due sistemi espressivi divergenti: quello ultradrammatico relativo alla rappresentazione della guerra e delle sofferenze e quello infinitamente più poetico nel quale prevale un senso chiarissimo di umanità“, e aggiunge che nel secondo sistema espressivo “l’immagine appare meravigliosamente ripulita da orpelli linguistici e in grado di comunicare una toccante verità umana con nitida limpidezza“, non ci pare che il critico si scagli in toto contro quella riproposizione della realtà “in un quadro espressivo che attiene a una poetica individuale”, che Leo Brogioni rivendica.

Ci pare, invece, come abbiamo già affermato, che si opini su un abuso di “orpelli linguistici”, fermo restando l‘apprezzamento per la bravura del fotografo che opportunamente li gestisce.

Le vere divergenze all’interno del dibattito riguardano, parrebbe, soprattutto l’uso che delle fotografie si fa. Ma anche qui i due partono da un comune assunto: come ribadito da entrambi, infatti, ognuno è libero di scattare la sua foto come meglio crede, aspettandosi però – onestamente – che ne possa venir fatto un uso strumentale imprevisto.

Se Brogioni afferma che “il senso delle immagini di fotogiornalismo sta tutto nella loro utilizzazione, cioè nel fatto che il loro canale di diffusione è il giornale o la rivista. Nulla di più“ – De Bonis, a nostro parere, lo rincalza col dire che “la forza comunicativa di una fotografia è potentissima e molto diretta ed ha notevolissima capacità di persuasione sul fruitore anche quando comunica con tutta evidenza il falso”.

E‘ semplicemente così, e perciò nessuno dei due si meraviglia o si scandalizza del fatto che il fotografo sia latore di una sorta di testimonianza neutra (nel senso che “non risulti definibile in base a riferimenti o aspetti spiccati“, cito l’accezione generica riportata sul Devoto Oli). Insomma una testimonianza ambigua più che neutrale. E’ il giornale con i suoi titoli e il suo articolo a “disambiguarne” il significato, nella maniera che riterrà più opportuna.

Brogioni vuole che il reportage sia giornalismo, con tutti i limiti del giornalismo; De Bonis – d’accordo con noi sul fare dei distinguo fra reportage e fotogiornalismo – vorrebbe che il primo fosse una sincera documentazione, pur riconoscendo tale desiderio come utopistico.

In mezzo la posizione di Fulvio Bortolozzo, che giustamente si chiede che senso abbia proporre un reportage come tale e aggiunge “mi pare quindi che dietro apparenti questioni di stile e retorica linguistica si nascondano più profonde questioni culturali e politiche” e approfondisce l’asserzione di De Bonis secondo la quale “vi sono tante potenziali interpretazioni di un’immagine esattamente quanti sono gli sguardi che vi si posano sopra”, proponendo una felice soluzione. E cioè che l’atto di fotografare implica la registrazione di un accadimento, ma anche di “dati visivi” su cui riflettere liberamente, e sui quali “ognuno, liberamente, può godere o indignarsi. Come peraltro può avvenire comunque anche guardando lavori esteticamene e politicamente “corretti” di autori eccellenti come Paolo Pellegrin“.

Crediamo sia questo una sorta di primo “passo di fianco”.

Usando quest’espressione, pensiamo a Michelangelo Pistoletto, a una dichiarazione risalente al lontano 1967, dove “il passo di fianco” era proposto come modalità di un pensiero creativo. Tale dichiarazione oggi recepita come una rivendicazione della propria “libertà di cambiare continuamente stile senza negare la personalità dell’atto creativo… in un’ottica di collaborazione anche tra professionalità ed attitudini differenti“, era in realtà la proclamazione di una sentita esigenza di procedere cambiando punto di vista, creando di volta in volta uno scarto intellettuale; sullo sfondo anche l‘idea della cosiddetta “creative collaboration“ elaborata più tardi.

Non è un caso – crediamo – ritrovare l’idea del “passo di fianco” in uno scritto di Alessandro Baricco, pubblicato nell’ottobre del 2006 su “La Repubblica”, come parte d’un “libro di saggistica a puntate“, poi riproposto in una versione di poco ampliata nel libro “I barbari. Saggio sulla mutazione”, edito da Fandango. S‘intitola “La forza del senso per loro è altrove”.

Leggendolo non lasciatevi ingannare dal termine “barbari”. Il libro parla della “mutazione”, in verità, tanto che questo avrebbe dovuto essere il suo titolo e tratta dei cambiamenti in atto nel nostro mondo, del loro presentarsi all’insegna della discontinuità rispetto al passato.

E’ una semplice constatazione dello stato delle cose. Cui seguono delle domande, che sarebbe opportuno porsi, anche per meglio capire l’argomento che qui ci preme.

Baricco prende in esame il concetto di “autenticità”; lo colloca in una precisa tradizione e poi ci fa notare quanto esso abbia perso oggi di significato, invitandoci così ad esser più che altro consapevoli di una certa confusione, poiché la nostra logica ormai è in un certo qual modo scissa. E parla anche di “differenza”, una differenza che nasce dal passo di fianco.

Riflessioni davvero proficue queste, a nostro parere.

Per quanto riguarda il nostro dibattito, sarebbe forse opportuno cominciare a tracciare un cammino fatto di passi di fianco.

Non è facile però, e potrebbe persino sembrare fuorviante. In realtà non lo è. Tanto meno lo è se vorrete leggere quest’invito nell’ottica proposta da Pistoletto. Collaborazione inclusa. Utopia?