Nella speranzosa attesa che si potesse attivare un dibattito sull’attuale stato delle cose del reportage, l’ultimo post – come avrete notato – è rimasto a lungo tale.
Il titolo di questo nuovo post può sembrare faccia, un po’ tristemente, riferimento al numero di commenti che appaiono in calce al precedente, ma per fortuna i commenti che mi sono giunti per altre vie sono in numero maggiore. Si tratta, invece, proprio di un commento, che vorrebbe tirare un po’ le somme riguardo alle reazioni destate e dall’articolo di Maurizio De Bonis e da quello in risposta qui pubblicato.
Innanzi tutto, vorrei ringraziare proprio quell’unico commentatore “pubblico”, apprezzando sommamente il fatto che abbia voluto rimarcare la problematicità della questione allargando il punto di vista ai suoi evidenti risvolti sociali. Allo stesso modo ringrazio infinitamente anche coloro che, linkando sul proprio sito, blog o forum il mio post, hanno permesso a numerosi lettori di leggerlo, e – si spera – di farsi una propria silenziosa opinione.
Un evidente sintomo dell’interesse che quest’argomento riscuote è proprio il gran numero di visite, dalle più svariate provenienze. Un piccolo mistero rimane questo silenzio; possiamo pensare resti in attesa di quei commenti specialistici da parte dei critici, che auspichiamo arriveranno, prima o poi, magari altrove.
Per quanto riguarda, invece, coloro i quali hanno voluto farmi giungere in maniera più informale la loro opinione, posso dire che – m’è sembrato – concordassero, purtroppo, quasi tutti nel notare una sconsolante sensazione di calma piatta intorno a qualsivoglia argomento potrebbe suscitare l’attuale produzione fotografica contemporanea, non solo il fotoreportage. A loro dire, la critica fotografica italiana, ai suoi vari livelli, pare abbia rinunciato al suo fondamentale ruolo di guida e supporto della creatività fotografica, per dedicarsi al consolidamento di posizioni ormai anacronistiche, per piaggeria di fronte a un sistema di poteri economici, che grava sul mondo della fotografia come su tutto il resto; o peggio, per incapacità di proporre altro.
Apocalitticamente qualcuno è arrivato a supporre che tali deficienze, del resto, accomunerebbero fotografi e critici, ugualmente impreparati culturalmente a rispondere alle nuove sollecitazioni sociali; in fondo, ugualmente inconsapevoli del cambiamento in atto, e autisticamente soddisfatti del proprio lavoro.
Al di là di un simile scenario, che preferisco riferire con scarsa convinzione (davvero non vorrei che così fosse!), ci sarebbe da chiedersi davvero, al di là di sporadici casi, dov’è andato a finire il serio dibattito teoretico sulla fotografia in Italia; perché certi festival, fin troppo affollati di mostre, non siano quasi mai occasioni di incontri e dibattiti pubblici, ma restino confuse vetrine di merce visiva.
Tornando proprio al reportage, vorrei qui accennare ad un articolo che ho letto qualche tempo fa (purtroppo non riesco a ricordare la fonte), nel quale si ipotizzava un’estizione del fotogiornalismo già in atto.
Si faceva notare, infatti, che la presenza di una doppia edizione (cartacea e su web) delle maggiori testate giornalistiche avrà come conseguenza l’inutilità del documento fotografico “puro”, soppiantato dai “fermo-immagine” delle riprese video, se – come accade già in un celeberrimo giornale estero – il reporter verrà soppiantato da un qualsiasi operatore video: le cui immagini saranno scaricate nel web come video appunto, i cui “still” finiranno su carta.
Se per caso siete perplessi riguardo al commento fatto da Fulvio Bortolozzo al post, perché non date poi un’occhiata ad un articolo del “Guardian”, che s’intitola “We all helped to speed the demise of professional photographers“?
Ma in conclusione vorrei citare le parole che ho ricevuto via email da un noto fotografo: “Mi ricordo, negli anni ’60 – ’70, nell’epoca di fioritura del “nouveau roman” si era convinti della morte del romanzo come genere letterario. Invece il benedetto romanzo gode tuttora ottima salute in quasi tutte le lingue del mondo. Certo, i giornali e le riviste forse non richiedono più i reportage classici. D’altronde pochissime persone comprano libri di poesia – malgrado tutto ciò i poeti esistono e continuano scrivere poesie anche se il grande pubblico se ne frega di loro. Scrivere è una necessità interiore,
come anche fare foto può esserla.”
Non posso che condividere le parole del noto fotografo.
Premesso che non sono un fotografo professionista, né un critico, ma un semplice amatore novello, mi sento di poter affermare che la fotografia non morirà nel breve termine, così come nel lungo termine. Potrà cambiare forma, evolversi, adattarsi alle nuove tecnologie, esser vittima delle mode, del consumismo, dell’incompetenza, della strumentalizzazione, come lo sono e lo saranno la totalità delle attività umane. Smetterà forse di essere un mezzo di denuncia, perderà credibilità, sarà lo sfogo e il ritrovo di pochi eletti, chi può dirlo con certezza? Di sicuro rimarrà sempre un mezzo per esprimersi, uno fra i tanti che l’uomo ha a disposizione. Nessuno può affermare che sia il migliore, il più fedele e il più sicuro, perché questo dipende dai gusti personali, dalla propria sensibilità e dalla predisposizione naturale che ognuno di noi ha verso i diversi sensi. A me personalmente la fotografia offre punti di vista alternativi, non comuni, destabilizzanti e spesso artistici. La considero come una lente che amplifica la realtà che mi circonda, che mi aiuta a vedere oltre, spesso in modo intimo, personale. Quando vedo le foto degli altri a volte percepisco un messaggio, una denuncia, una visione, mentre altre è puro piacere estetico. In tutte queste interpretazioni c’è però una costante: comunicare.
Francamente poco mi preoccupa che la sua funzione sociale potrebbe calare, se non addirittura scomparire: fotografare “è una necessità interiore”.
"Mi piace""Mi piace"