In risposta a “Reportage e senso della fotografia – Note a margine di Broken Landscape di Paolo Pellegrin” di Maurizio G. De Bonis.
Impone una seria riflessione la lettura dell’articolo (appello al dibattito) del direttore di Cultframe, che prendendo spunto dalle immagini più recenti di Paolo Pellegrin, fra quelle attualmente in mostra al Museo di Roma in Trastevere, espone i propri dubbi sul reportage contemporaneo e sul tipo di comunicazione che tende a veicolare.
Partendo dall’inconfutabile assioma che “l’azione del fotografo è sempre e comunque parziale, dunque non in grado di raccontare la realtà ma solo di sezionarla e di riproporla in un quadro espressivo che attiene a una poetica individuale e non alla raffigurazione oggettiva degli eventi“, Maurizio De Bonis si chiede, in particolare, cosa rimanga in certi casi della vicenda riportata dal fotografo, se non una retorica visuale tendente alla spettacolarizzazione.
Stilemi ormai popolarissimi, quali “enfatizzazione drammatica dell’inquadratura, uso evidentissimo di contrasti, cieli lividi, fortissima sgranatura del bianco e nero, angolazioni impressionanti“, infatti, fanno leva sulle emozioni del fruitore piuttosto che raccontare una storia sia pure filtrata dalla personalità e dalle idee dell’autore; col risultato che la dimensione etica del lavoro del fotoreporter risulta messa in ombra da quella estetica, forse perché – insinua infine De Bonis – in certi casi il mondo del reportage contemporaneo è vittima dell’ego ipertrofico di certi suoi operatori. Fra i quali non è da annoverare, comunque, Paolo Pellegrin, pluripremiato membro di Magnum Photo: la stessa mostra, che è un excursus su oltre un decennio d’immagini in svariate situazioni e luoghi, finisce infatti con l’assolverlo da eventuali sospetti.
Ma cos’è mai il reportage? E cosa ci aspettiamo sia, dal momento che (vedi precedente post) persino l’opera di un fotografo d’arte (nel senso che fotografa le opere d’arte) può essere definito, in qualche modo, reportage?
Proprio all’inizio del capitolo su Forme ed espressioni del reportage, Alfredo De Paz, nel suo “Fotografia e società”, chiarisce: “Se ogni fotografia in generale – in quanto riporta immagini del (dal) mondo – può essere detta reportage, il reportage vero e proprio si riferisce a quelle immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul luogo stesso di un determinato evento; in questo senso, la fotografia di reportage, in quanto registrazione meccanica del mondo, si distingue dalla “fotografia di atelier” in cui determinate situazioni vengono artificialmente costruite e messe a punto per finalità estetiche”.
De Paz rimarca, inoltre, una sottile distinzione tra due termini che normalmente si sovrappongono fino a confondersi: reportage e fotogiornalismo. Nel primo “il fotografo si limita a riprendere determinati frammenti di realtà aventi precisi significati (soggettivi, sociali, politici, etnologici …); nel secondo “emerge maggiormente il desiderio di raccontare, attraverso le immagini, una storia avente valenze semantiche prevalentemente storiche, sociali, politiche”.
In un caso o nell’altro, il critico non menziona forme d’intervento autoriale di carattere “espressionistico”, se così si può dire.
Tuttavia leggendo avanti nello stesso libro, intuiamo che certe forme di “licenza poetica” siano state accolte da tempo e senza riserve all’interno del discorso critico sul reportage: basti pensare al fatto che De Paz nel tracciare un panorama di tale genere fotografico include nel novero dei reporter – accanto a Cartier-Bresson, Ronis, Kertész, Capa e Seymour – un autore come Mario Giacomelli, magari ingenerando in alcuni una certa perplessità. L’interpretazione della realtà è certo fortissima in Giacomelli, il quale più che fatti narra sensazioni e sentimenti, attraverso certi stilemi personali, che ormai spesso vengono (più o meno consapevolmente) citati da tanti giovani fotografi, fino al punto di farne un vero e proprio abuso.
Ed è forse piuttosto questo che a noi dà più fastidio, come – crediamo – in fondo anche a De Bonis: l’abuso delle formule stilistiche ormai “brevettate”. Non i toni espressivi intensi, ma il “virtuosismo” espressivo, che oltretutto – da fotografi, vorremmo insinuare – potrebbe anche aver qualcosa a che fare con i limiti della tecnica, soprattutto quando ci capitano fra le mani immagini di guerra – non è per fortuna il caso di Pellegrin! – scattate (questo sarebbe normale) in condizioni di luce critiche, ma per di più a distanze ragguardevoli attraverso obiettivi lunghi come bazooka.
Giusto per “dimostrare quanto (questi reporter) siano coraggiosi e abili a districarsi in situazioni difficili” soprattutto restandone alla larga. Sgranatura e forte contrasto nel bianco e nero, tanto, da fattore tecnico si trasformano in cifra espressiva, grazie ad un modo comune che è diventato “moda”, anche per via della promozione di tanti critici, non meno che del mercato editoriale.
Quali che siano i motivi, allo stato delle cose non possiamo che constatare una più che affermata tendenza ad accantonare l’immagine esteticamente pregnante (“classica” in senso lato) alla Cartier-Bresson, in favore di una certa indeterminatezza (molto “romantica”).
E’ un passaggio dal lineare al pittorico, dalla forma chiusa alla forma aperta, dalla chiarezza assoluta alla chiarezza relativa; il tutto rappresentato da immagini fluttuanti, spesso prive di contorno, che suggeriscono il moto e il continuo divenire, il reciproco influsso tra soggetto e oggetto; e invitano, in conclusione, all’apertura verso ogni lettura.
Al di là del fatto che le dicotomie che abbiamo utilizzato sono le stesse con le quali Wölfflin descriveva la contrapposizione fra Arte rinascimentale e Barocco (che sono poi le stesse categorie mentali che contrappongono pensiero classico a pensiero romantico); e alla luce del fatto che la “non-finitezza” (qualità a cui anche Paolo Pellegrin si dice interessato allo scopo di stimolare una conversazione o un dialogo) sia una modalità esecutiva molto frequente nell’Arte Contemporanea, atta a sollecitare proprio l’intervento interpretativo/creativo del fruitore; possiamo parlare davvero di reportage di fronte a siffatte opere?
In effetti, l’importante è mettersi d’accordo sulle definizioni.
Ciao Rosa Maria,
ho preso conoscenza di questo dibattito dal blog di Iovine che ha lodevolmente linkato il video della mostra di Pellegrin, la replica di Maurizio De Bonis e il tuo intervento.
Ebbi il piacere di far parte con Maurizio della giuria di Fotoleggendo 2006 e ci ritrovammo schierati insieme, spontaneamente e soli, contro le riproposizioni accademiche, e anche virtuosistiche, degli stilemi del fotoreportage “classico”. Al di là della contingenza (prevalse per l’ennesima volta un lavoro ben confezionato di quella natura) rimane a mio avviso la questione di fondo: il fotoreportage ha ancora un senso?
Mi spiego meglio. Assodato che un autore ha il diritto/dovere di realizzare il suo lavoro come meglio sente e pensa, ha senso oggi che siano delle persone esterne ai fatti a “riportare” delle “icone fotografiche” e a far questo per “professione”?
Mi pare che la situazione mediatica contemporanea, con la sua pluralità di voci e mezzi, non abbia più realmente bisogno del “bardo” che canti le storie del mondo e nemmeno del trito e ritrito “testimone del tempo”. Testimone di fronte a quale giuria? Quella della “storia” o della “pubblica opinione”. Mi paiono anche queste ultime delle categorie da rimettere profondamente in discussione.
Penso che resti una sola funzione per il fotoreportage, tutta ideologica: mantenere in vita con la flebo del “fotoreportage umanista” la necessità del “giornalismo di riflessione” orientato culturalmente e politicamente verso la difesa dei diritti civili (ONG, movimenti e partiti politici di sinistra) contro l’aggressione barbarica del liberismo selvaggio delle multinazionali e dei governi che le appoggiano. Quindi una funzione tipicamente Novecentesca in appoggio ad una radicale alternativa politica (quella socialista reale) che non esiste più. A meno che non si ritenga importante svolgere la funzione autoreferenziale del far indignare chi già si indigna di suo da decenni o anche avviare i giovani più sensibili a questi argomenti ad indignarsi per i prossimi decenni. Ma questa è propaganda.
Mi pare quindi che dietro apparenti questioni di stile e retorica linguistica si nascondano più profonde questioni culturali e politiche. Per questo, ritengo che siano oggi più interessanti i filmati autoprodotti dai protagonisti (pensa alle vicende dello Tsunami, di Abu Graib, o all’uso di You Tube, ecc.) per svolgere la funzione di “denuncia”. Perché se come diceva Wim Wenders: “un film contro la guerra è in fondo anche un film a favore della guerra” è vero anche il contrario. Il filmato di un sadico o di una vittima di un evento “riporta” dati visivi su cui ognuno, liberamente, può godere o indignarsi. Come peraltro può avvenire comunque anche guardando lavori esteticamene e politicamente “corretti” di autori eccellenti come Paolo Pellegrin.
Scusandomi per la prolissità, vorrei brevemente concludere proponendo alla riflessione il fatto che i lavori più interessanti per superare la morta dicotomia autore/evento sono quelli di artisti contemporanei e anonimi fotografi occasionali riuniti in un uso puramente indicale della fotografia: restituzione ottica, traccia ambigua di luminosità senza altro senso che la loro pura esistenza.
Un caro saluto,
Fulvio.
"Mi piace""Mi piace"
Cara Rosa Maria
un doveroso commento che a causa della velocità con cui scrivo rischia di essere un po’ troppo sintetico e brutale nei toni (e mi scuso in anticipo), ma d’altronde volevate il dibattito ed eccovelo.
La tua riflessione e quella di Maurizio G. De Bonis partono dall’idea che il fotogiornalismo sia una forma d’arte: ma forse troppo spesso ci dimentichiamo di collocare questo genere fotografico nell’ambito che gli appartiene, ovvero nel giornalismo.
Un settore dove quello che conta principalmente non è solo la descrizione/documentazione di un evento, ma soprattutto il suo volerlo e doverlo spiegare ai lettori in modo da dare a questi ultimi gli strumenti e le informazioni necessarie per esercitare i propri diritti democratici.
Il senso delle immagini di fotogiornalismo sta tutto nella loro utilizzazione, cioè nel fatto che il loro canale di diffusione è il giornale o la rivista. Nulla di più.
Nel momento in cui si organizza una mostra si svincola l’immagine giornalistica dalla sua funzione prioritaria e naturale per porla in un altro ambito, che – gli appartenga o meno – non è il fotografo ad aver stabilito, ma chi ha gli strumenti culturali, organizzativi ed economici per farlo.
Se un’immagine giornalistica diventa opera d’arte è perchè lo hanno deciso il tempo e la storia (facendola diventare un’icona, degna di entrare a far parte di qualche collezione pubblica o privata, dopo averne legato il valore estetico a quello documentativo).
Ma tutto questo è cosa a parte dal giornalismo ed è cosa a parte dall’intento primario di chi quella foto ha realizzato.
Mi è sembrato opportuno sottolineare questa differenza.
Ed è chiaro perciò che parlare di “retorica del fotoreportage” significa dare per scontato che un fotogiornalista lavori per realizzare opere d’arte quando è impossibile che lo faccia perchè non sarà lui a decidere se le sue immagini possano esserlo.
D’altro canto nel pezzo di De Bonis leggo anche la “perfettamente confutabile frase” (uso questi termini in polemica con te)
“L’azione del fotografo è sempre e comunque parziale, dunque non in grado di raccontare la realtà ma solo di sezionarla e di riproporla in un quadro espressivo che attiene a una poetica individuale e non alla raffigurazione oggettiva degli eventi.”
Ma non è proprio questo ciò che ci aspettiamo da un giornalista? Non è proprio questo ciò che andiamo a cercare su riviste e quotidiani da parte di giornalisti di penna, quando leggiamo i loro editoriali? E poi: chi è che decide cosa è oggettivo e cosa non lo è?
Quando leggiamo corrispondenze o articoli sempre apprezziamo chi “non è in grado di raccontare la realtà ma solo di sezionarla e di riproporla in un quadro espressivo che attiene a una poetica individuale e non alla raffigurazione oggettiva degli eventi”.
E’ la sensazione, l’opinione, l’emozione di chi sta sul campo a destare il nostro interesse ed a permetterci di capire qualcosa di quello che sta succedendo. Probabilmente costringendoci a leggere diversi corrispondenti o inviati, a fare una media di sensazioni, opinioni, emozioni che solo chi ha visto e vissuto può restituirci. Ed è anche questa libera varietà che ci accresce culturalmente e politicamente.
Per questo mi trovo in disaccordo anche con l’opinione di Fulvio (commento precedente) che mette in dubbio la necessità di far sì che siano delle persone esterne ai fatti a “riportare” delle “icone fotografiche” e a far questo per “professione”. E’ proprio l’indipendenza dei vari giornalisti professionisti inviati sul campo a garantire un’informazione degna di questo nome: dovrei venire a sapere cosa succede in Palestina grazie ad un militante di Hamas? O da un sostenitore di Fatah? In ogni caso sarei ben lontano dal venire a sapere come stanno effettivamente le cose. Leggerei e vedrei propaganda, invece di avere spiegazioni e strumenti di comprensione, che un giornalista, pur schierato, riuscirebbe a farmi avere grazie anche alla sua neutralità territoriale. Quello che è successo la scorsa estate in Libano, quando stringer locali sono arrivati a manipolare delle immagini per dare una versione distorta della realtà, ne è la prova.
Mi sembra una visione qualunquista anche la frase conclusiva di De Bonis: “siamo certi che il mondo del fotoreportage contemporaneo non sia vittima di un fuorviante protagonismo e non si limiti a essere la manifestazione della superficialità di fotografi che vogliono semplicemente dimostrare quanto siano coraggiosi e abili a districarsi in situazioni difficili, dunque stimabili?”
Ancora una volta mi tocca chiedere: perchè prendersela sempre con i fotografi, che lavorano principalmente per soddisfare richieste editoriali? Il fotogiornalismo contiene anche delle componenti commerciali (oltre a quelle giornalistiche) che mi costringono a ricordare che dietro ai fotografi (meglio dire: sopra i fotografi) ci sono sempre delle aziende che vivono di pubblicità, e quindi ci sono delle dinamiche editoriali delle quali i fotografi sono vittime. Ma ancora e soprattutto: da fotografo, vi garantisco che esistono metodi molto ma molto più semplici, efficaci e remunerativi per dare sfogo al proprio esibizionismo o protagonismo.
Se vogliamo dire che il fotogiornalismo è in crisi creativa diciamolo, ma facciamo riferimento alla sua componente giornalistica e alla “retorica dei mass media” prima di prendercela con chi rischia di apparire “cornuto e mazziato”.
"Mi piace""Mi piace"
Rispondo molto volentieri al messaggio inviato da Leonardo Brogioni a seguito del mio articolo intitolato Reportage e senso della fotografia e dei successivi interventi di Rosa Maria Puglisi e Fulvio Bortolozzo, apparsi su Lo Specchio Incerto.
Per prima cosa, come giustamente sottolineato da Rosa Maria Puglisi, bisognerebbe fare chiarezza sui termini: io parlo di fotoreportage, Brogioni di fotogiornalismo, dunque probabilmente ci riferiamo a settori contigui ma diversi.
In secondo luogo non affermo in nessuna parte del mio scritto che il fotogiornalismo sia una forma artistica. Anzi stigmatizzo proprio il fatto che alcuni fotografi riempiano i loro lavori sul campo di elementi espressivi che fanno riferimento a una visione artistica della fotografia piuttosto che a un’utopistica, ma magari sincera, esigenza di documentazione.
La concezione secondo la quale il fotogiornalismo, come sostiene Brogioni, sia un settore “dove quello che conta principalmente non è solo la descrizione/documentazione di un evento, ma soprattutto il suo volerlo e doverlo spiegare ai lettori in modo da dare a questi ultimi gli strumenti e le informazioni necessarie per esercitare i propri diritti democratici”, mi sembra, con il massimo rispetto, a dir poco ingenua. L’idea che un fotografo spieghi ai lettori cosa succede nel mondo mi sembra preoccupante e che tale presunta spiegazione consenta agli altri di “esercitare i propri diritti democratici”, decisamente stravagante. La storia della fotografia ci ha insegnato che le manipolazioni, le censure e la propaganda stanno sempre in agguato e comunque ribadisco che l’immagine fotografica è una porzione di realtà, un singolo atomo spazio-temporale in un accadimento che si svolge in modo esteso nello spazio e nel tempo.
Per quel che riguarda la questione giornalistica mi sembra che Brogioni confonda l’editoriale scritto con il servizio fotogiornalistico, a meno che si pensi che sia possibile elaborare un editoriale attraverso delle immagini. Chi pensa così a mio avviso sbaglia in maniera macroscopica. Le immagini fotografiche (anche quelle fotogiornalistiche) sono infatti elaborazioni che riproducono un segmento di realtà con i segni della realtà, niente altro. Tale questione può indurre un lettore, non consapevole del valore del linguaggio fotografico, a ritenere che ciò che sta guardando non solo sia la realtà, ma addirittura la verità assoluta e inoppugnabile di un evento. Questo perché la forza comunicativa di una fotografia è potentissima e molto diretta ed ha notevolissima capacità di persuasione sul fruitore anche quando comunica con tutta evidenza il falso (vedi ad esempio, passando a un altro settore, la fotografia pubblicitaria). Inoltre, vi sono tante potenziali interpretazioni di un’immagine esattamente quanti sono gli sguardi che vi si posano sopra. L’editoriale scritto invece non può generare interpretazioni del lettore, ma solo la presa d’atto delle idee di chi ha scritto il pezzo.
Concordo invece con la posizione di Fulvio Bortolozzo sul fatto che forse non ha molto senso che “persone esterne” provino a documentare eventi tragici.
Dice Brogioni: “E’ proprio l’indipendenza dei vari giornalisti professionisti inviati sul campo a garantire un’informazione degna di questo nome: dovrei venire a sapere cosa succede in Palestina grazie ad un militante di Hamas? O da un sostenitore di Fatah?”. Ebbene, sul fatto che in giro ci siano fotogiornalisti realmente (e intellettualmente) indipendenti ho forti dubbi (tutti hanno idee o posizioni politiche, a meno di essere qualunquisti) e sul fatto che questi fotogiornalisti abbiano evitato, ad esempio per la questione mediorientale, di lasciare il monopolio della comunicazione visiva ad Hamas o Fatah lo contesto con decisione. Il risultato di chi lavora in zone al centro di conflitti è in genere quello di finire (anche involontariamente e in buona fede) per motivi contingenti (cioè l’impossibilità di fatto di svolgere il proprio mestiere in totale autonomia e libertà di movimento) per fare semplicemente da megafono ideologico all’una o all’altra parte.
Infine, un’ultima considerazione, personalmente non ho nulla contro i fotografi, sarebbe un’assurdità. Io contesto le idee, queste sì qualunquistiche a mio parere, che un fotoreporter mi possa spiegare qualcosa, che possa documentare oggettivamente eventi tragici e peggio ancora che i fotoreporter producano certe immagini per motivi editoriali e commerciali. Una simile giustificazione mi sembra veramente imbarazzante e non accettabile. Sarebbe come se un redattore o un inviato di giornale scrivesse un articolo sotto dettatura perché gli danno uno stipendio. Lo troverebbe giusto?
"Mi piace""Mi piace"
Faccio il giornalista e il fotografo. Cos’è il reportage? Una storia, penso. Una storia fatta di mille storie intrecciate fino a creare una corda tesa verso un altrove. E’ questo, almeno, quello che ho provato a fare nei miei. Alcuni sono su http://giacomobassi.blogspot.com : non so se ci sono riuscito, ma almeno ci ho provato. Per tutti i lettori…
saluti
"Mi piace""Mi piace"
Reportage e senso della fotografia Manifesto per una istruzione alla fotografia
Vorrei, se permettete, gentile Rosa Maria e voi tutti, intervenire neldibattito, allacciandomi al discorso di Fulvio Bortolozzo per spostare l’attenzione su un punto che ritengo importante nel settore della fotografia: l’insegnamento.
Passaggio che mi ha permesso di riflettere è il seguente:
“Mi pare quindi che dietro apparenti questioni di stile e retorica linguistica si nascondano più profonde questioni culturali e politiche. Per questo, ritengo che siano oggi più interessanti i filmati auto-prodotti dai protagonisti (pensa alle vicende dello Tsunami, di Abu Graib, o all’uso di You Tube, ecc.) per svolgere la funzione di “denuncia”. Perché se come diceva Wim Wenders: “un film contro la guerra è in fondo anche un film a favore della guerra” è vero anche il contrario. …Come peraltro può avvenire comunque anche guardando lavori esteticamente e politicamente “corretti” di autori eccellenti come Paolo Pellegrin. … vorrei brevemente concludere proponendo alla riflessione il fatto che i lavori più interessanti per superare la morta dicotomia autore/evento sono quelli di artisti contemporanei e anonimi fotografi occasionali riuniti in un uso puramente indicale della fotografia: restituzione ottica, traccia ambigua di luminosità senza altro senso che la loro pura esistenza.”…
“L’analfabeta del futuro sarà ignorante sull’uso della macchina fotografica e della penna nello stesso modo.”
Quest’altra frase tra virgolette è una profezia di Moholy-Nagy del 1932 ma,quello che mi impressiona, non è solo la sua previsione ma la nostra incapacità a non porre attenzione a questa “verità” malgrado gli anni dimostrino che la fotografia sia la maggiore e la più stimolante innovazione nella comunicazione di stampa.
In un batter d’ali la fotografia ha invaso la cultura occidentale (e gran parte di quella orientale) con una tale determinazione che se, per qualche magia, tutti i materiali e le tecniche direttamente o indirettamente collegati ad essa, potessero svanire in una notte senza lasciar traccia, la nostra società sarebbe paralizzata.
La fotografia è ormai così integrata nel tessuto della nostra cultura – i fili passano attraverso le varie tecnologie, ma anche la fisica nucleare, la medicina, tutti i settori dell’industria, ecc – che la formazione della cultura ed il telaio per tessitura della storia sono assolutamente
dipendenti da essa.
Dovremmo renderci conto, quindi, che, “se accettiamo le immagini od i filmati auto-prodotti per svolgere una funzione di denuncia”, analfabetismo fotografico del nostro tempo è un fenomeno enormemente più grave a causa del suo potenziale espressivo/creativo/comunicativo
Siamo ormai tutti d’accordo che la fotografia sia una forma “naturale di arte” e quindi, per logica, dovrebbe esistere un “naturale insegnamento” ma ciò richiederebbe una ristrutturazione radicale dei metodi di insegnamento: bisogna infondere e nutrire la creatività.
Però, credo che, purtroppo, suggerire che questi dovrebbero essere gli scopi principali dell’istruzione della fotografia è come dire che la reale lotta, debba essere ancora verso la sua accettazione come una forma di Arte. Ci sarà sempre chi dirà che non si possa fare Arte con una macchina fotografica o qualcun altro che, se si può, sarà solo imitando i contenuti estetici di altre Arti Maggiori. Ma, fortunatamente, sia i fotografi che ogni persona coinvolta nel settore, prendono a cuore la questione e tentano di rompere questo ragionamento vizioso.
Però il problema, creato dalle due affermazioni del “naturale”, ci costringe ad esaminare la situazione da un altro punto di vista.
Se l’istruzione della fotografia è troppo importante non si deve lasciare ai fotografi. Orrore! No, non saltate sulla sedia!
Ma gli esperti fotografici commettono un fondamentale errore perchè pensano che la popolazione del mondo possa essere divisa in due gruppi: i “fotografi seri” e i non fotografi.
Credo che questa divisione sia imprecisa e crea un mondo ermeticamente sigillato dove gli esperti ed i loro accoliti si parlano l’un l’altro, inconsapevoli della loro dipendenza e non si confrontano con coloro che sono fuori dai loro parametri.
Ma, ahinoi, come nella guerra non ci sono, purtroppo, più i civili anche qui non ci sono più i fotografi.
Ora se togliamo lo sguardo dallo specchietto retrovisore e lo portiamo sul ruolo della fotografia nella nostra società, diventa evidente che c’è bisogno di una ridefinizione radicale del concetto della “comunità fotografica”.
Troppo a lungo abbiamo creduto che includesse solo “bravi” o “artisti” fotografi, curatori, critici e quel piccolo pubblico specificatamente interessati a guardare, acquistare e leggere i lavori che questi tre gruppi producono.
Anche se togliamo la fotografia da altre aree a cui accennavo prima e ci concentriamo esclusivamente sui media – film, TV, libri, riviste, quotidiani – siamo costretti a concludere che riceviamo la nostra informazione dall’immagine fotografica più che dalla parola scritta, il che significa che il 50% delle nostre decisioni (collettive e singole) è in qualche modo fortemente basato sulla fotografia.
Escludere, perciò, dal “concetto di comunità fotografica” chiunque immetta dati fotografici non è giusto.
Dobbiamo, per forza maggiore, formulare una nuova definizione di comunità; una più adatta al nostro tempo che Includa, senza graduatorie, chiunque faccia, utilizza, edita, esamina, valuta, incorpora, studia, apprende o insegna la fotografia, l’ immagine grafica in una qualunque delle sue forme.
Dovremmo quindi accettare che ognuno di questa società e nel mondo faccia parte della comunità e con questa visione di vasta comunità si avrà un potenziale straordinario di crescita. Un potenziale basato sulla profonda capacità dell’immagine di essere una sorgente di alimento per approfondire se stessi e la percezione dell’universo in cui viviamo.
Per fare tutto questo dobbiamo riconsiderare l’istruzione alla fotografia.
Per questo dovremmo prendere a cuore la profezia di Moholy-Nagy e lavorare affinchè non si concretizzi del tutto e che ogni persona, e non solo quelli chi alla fine decidono di seguire la loro vocazione o per il loro svago, vengano educati bene alle funzioni dell’immagine.
Tale istruzione è vitale come quella della scrittura, della lettura: si dovrebbe iniziare dall’infanzia ed essere una parte integrale degli insegnamenti a scuola a tutti i livelli. Sarebbe un buon inizio se ogni istituto superiore offrisse un corso di base (i corsi attualmente sono scarsi anche negli istituti superiori con sezioni di fotografia) .
Se osserviamo il fenomeno dell’immagine fotografica nella nostra cultura con il suo potenziale quale strumento evolutivo (come pure rivoluzionario), dobbiamo riconoscere che la fotografia ha molte funzioni in questa società e che queste hanno poco e forse niente a che fare con l’estetica e obiettivi.
Abbiamo già tutti noi dimostrato, che la fotografia sia una forma di arte: bene!
Insegnare ora solo arte ed estetica non è più sufficiente.
Ciò di cui abbiamo bisogno, adesso, è un avvicinamento didattico alla fotografia che non la releghi a corsi di belle arti ma bisogna integrarla in ogni disciplina.
Si deve alzare il tiro!
A meno che non siamo così superficiali da credere che la capacità di conoscere i nostri avi sia semplicemente sfogliando un album di famiglia e non vediamo quei cambiamenti che hanno modificato nel tempo le nostre percezioni.
Dov’è quindi, la scuola di psicologia con corsi di fotografia che esplorano congiuntamente questi cambiamenti?
Parliamo di guerra? Dove sono i corsi di storia che studiano l’esperienza dei soldati, a meno non pensiamo che la guerra sia una questione romantica?!
Tante domande simili potrebbero essere richieste in ogni disciplina: sociologia, medicina, letteratura.
Le risposte inizieremo a ottenerle solo quando ogni interessato alla istruzione della fotografia sarà disposto a guardare oltre la portata limitata dell’avvicinamento di arte/estetica e inizi ad applicare pressione per tutto il sistema educativo per un avvicinamento interdisciplinare alla educazione fotografica.
Un avvicinamento che porterà insieme i fotografi, storici fotografici, curatori di fotografia e critici di fotografia del futuro con scienziati, sociologi, poeti, psicologi, medici, ballerini, musicisti, matematici, fisici e scultori.
Dobbiamo affrontare il fatto che viviamo ora in un sistema sociale del tutto dipendente dalla parola stampata e dall’immagine fotografica.
Il tempo per il cambiamento è ora.
Siamo gli “analfabeti del futuro” Moholy-Nohy ci ha avvertito; i nostri bambini saranno gli analfabeti di un futuro ancora più disperato meno che non cambiamo rotta e allineiamo l’istruzione della fotografia con realtà più alte del nostro tempo.
Come concludere questo intervento?
In alcuni casi un lavoro fotografico non è principalmente una dichiarazione di sensibilità estetica o una prodezza intellettuale o qualsiasi altra cosa, ma una manifestazione del proprio codice morale e per questo dobbiamo pensare ad un insegnamento appropriato a tutti i livelli della nostra società.
Maristella Campolunghi
Mi presento: mi occupo di fotografia sia in veste di autrice che sul piano dell’attenzione culturale. Ho fondato l’associazione http://www.officinadelleimmagini.net con l’intento di contribuire ad attirare l’attenzione sulla fotografia promovendo anche iniziative ed incontri
"Mi piace""Mi piace"
Per ragioni varie ho ripreso in mano questo dibattito. Mi sfuggono alcune cose. Ma quali sono i riferimenti di un reportage che non sfugga all’essere un “sistema linguistico molto preciso”….una tavolozza di segni che determinano un’architettura stilistica che si sovrappone in modo netto alla porzione di realtà prelevata dal fotografo (De Bonis). Mi fate un esempio? E’ forse quel reportage “tradizionale”, ma in realtà anch’esso preciso sistema linguistico, il riferimento per l’agire del reporter?.
grazie,
Marco Benna
"Mi piace""Mi piace"