
Negli ultimi mesi mi è capitato più volte di scrivere di un concorso, dal titolo “Impronte in movimento“, legato ad un progetto didattico per le scuole di Roma e Provincia. Vi ero stata coinvolta, con “Lo Specchio Incerto”, come partner culturale, ma ho avuto pure modo di seguirlo in prima linea grazie ad alcune iniziative attraverso le quali si è sviluppato.
Dei risultati di questo interessante percorso didattico, potrete farvi un’idea navigando fra le pagine che il blog dell’iniziativa ha dedicato ai vincitori del concorso (per farlo cliccate qui!).
La premiazione è avvenuta, per la verità, diverso tempo fa, ma le suggestioni di quest’esperienza rimangono vive. Un recente editoriale apparso su “Fotografia: parliamone!“, blog di Sandro Iovine, (e su “Il Fotografo”), mi spinge oggi a parlarvene.
In quell’editoriale si parla molto opportunamente di cultura fotografica (e di Cultura tout court!): facendo notare come in Italia essa sia troppo spesso ignorata, proprio da gente che pretende di “far fotografia” – sol perché possiede un qualche mezzo di “registrazione” fotografica – senza conoscere, della fotografia, né il linguaggio né l’opera dei più conosciuti fra i suoi “Maestri”, ma sperando – in virtù di un presunto estro artistico e/o della frequentazione di qualche breve corso – di accedere ad una professione (e magari – aggiungo io – anche agli onori del mercato artistico!). Senza mai mettere in gioco se stessi, ma affidandosi all’improvvisazione per far “qualcosa che tutti son capaci con la macchinetta giusta” (questo, si direbbe, sia il nocciolo della loro convinzione).
Che questa sia l’opinione più diffusa presso chi si volge oggi alla fotografia è lampante; basti guardare i siti di photo sharing e i social network, dove imperversano frotte di improvvisati fotografi, pronti ad abbordare il mestiere, con l’incoraggiamento e la benedizione dei loro innumeri ammiratori: sostenitori accesi di ogni sorta di stereotipo oleografico all’ultima moda.
Il richiamo, nell’articolo di cui sopra, alla “necessità della cultura” mi riporta inevitabilmente alla “scuola pubblica”, luogo che – si presume – dovrebbe ancora se non proprio diffondere la Cultura, almeno fornire agli studenti le basi e gli strumenti per orientarsi in futuro. Non starò certo qui a parlarvi (non è il luogo adatto!) dell’attuale situazione della Scuola e delle difficoltà quasi insormontabili che incontrano gli insegnanti “di buona volontà”: quelli che resistono ad un altrimenti diffuso disfattismo!

Ancor più, il richiamo di Iovine e le sue considerazioni – che nell’articolo diventano ripetutamente moniti rivolti a chi si avvicina ad un degnissimo e complesso mestiere – mi riportano all’esperienza di quel concorso, e mi spingono a portare davanti a voi la testimonianza di quella che parrebbe una situazione assolutamente nuova e ricca di speranze per il futuro della fotografia.
Durante la premiazione, la presidente di giuria del concorso Mussi Bollini, capostruttura Rai tre bambini-ragazzi (la creatrice, per intenderci, della celebrata Melevisione), ricordava al pubblico che la generazione che di cui avevamo esaminato il lavoro è quella dei cosiddetti “nativi digitali”, di coloro cioè che danno la tecnologia come fatto quotidiano e acquisito. Un dato di fatto per nulla trascurabile!
Cresciuti in mezzo a una pervasiva ridondanza d’immagini, assorbite letteralmente sin dalla più tenera età; abili in maniera innata nel maneggiare i mezzi tecnici, e quindi non tentati dalle forme di cieca “tecnolatria”, che colgono gli attuali adulti; questi ragazzi sono “semplicemente” più aperti alla dimensione contenutistica delle immagini, il cui linguaggio è per loro “evidente”. Ne risulta un approccio totalmente diverso da quello dei tanti attuali neofiti che riempiono le varie scuole di fotografia.

Grazie a tali premesse l’estetica, nei loro scatti, si ritrova felicemente al servizio della comunicazione di loro vissuto personale, in una gamma di soluzioni ampia e diversificata: insomma ciascuno tiene ad esprimersi alla propria maniera, e di fatto sceglie un proprio “stile” di comunicazione, senza essere ossessionato dallo “stile artistico personale”.
Emblematico di un rapporto d’istintiva aderenza allo specifico del mezzo, è l’esempio di un giovanissimo allievo, il quale – raccontando il proprio incontro, da non vedente, con la fotografia – si pone con semplice immediatezza la questione della riduzione della realtà a rappresentazione fotografica.
Le immagini che vi mostro qui spero possano dare un’idea di quanto detto.
Quello che ho visto, in conclusione, incontrando questi ragazzi, è un approccio alla fotografia “diretto”, senza tante vane pretese, fatto soprattutto di stupore e di voglia di mostrare, ma anche di spontanea capacità di vedere. Queste cose m’inducono – fra tante assurdità cui assistiamo oggi – a sperare che ci saranno nel prossimo futuro fruitori più consapevoli della fotografia, e persino fotografi più colti, dal momento che “sceglieranno” la fotografia, comprendendo bene il cammino che gli si para innanzi. E probabilmente ci penseranno molto bene prima d’intraprenderlo; anche perché – incredibile a dirsi – allo stadio attuale il mestiere di fotografo è, per la maggior parte di loro, un lavoro come un altro, totalmente privo di quel fascino che ha per tanti adulti, i quali proiettano se stessi nel mondo della fotografia con un carico di aspettative spesso estranee alla fotografia in sé.


Condivido queste tue buone speranze Rosa Maria, i tuoi articoli sono sempre fonte di riflessione.
Ricordo con tanto affetto una mia insegnante di lettere delle scuole medie che per sua personalissima iniziativa aveva organizzato, 25 anni fa… un corso pomeridiano di fotografia regalandoci un’alfabetizzazione fotografica
a quel tempo usammo delle compatte “mira e scatta” a pellicola sviluppate in mini lab, ricordo in una gita di classe quando la prof avvicinandomi mi disse:”Perchè non fai una bella istantanea al signor Preside che gioca a calcio con i tuoi compagni?”
Dio ci preservi insegnanti e persone di questa pasta…
Perdonate l’amarcord patetico… (tipico senile)
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bellissimo articolo, pieno di possibili sviluppi, non ho detto speranze… si è vero la scuola nonostante tutto è laboratorio permanente, dove a volte accadono miracoli, se trovi dei pazzi che li fanno succedere, altre volte è specchio di una società malsana…perchè non lo metti anche sul blog impronte?ciao Roberto
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