mani.jpgFino al 30 settembre la Galleria fotografica del Musée d’Orsay di Parigi ospita “La main”, mostra dedicata alla rappresentazione della mano – e naturalmente alle sue valenze simboliche – all’interno della prima produzione fotografica ritrattistica, dai suoi albori fino ai primi del Novecento.

Le opere selezionate per l’esposizione forniscono un vasto campione di immagini, rappresentativo e delle tecniche e delle prassi dell’epoca: accanto ad opere d’autore (da Disderi a Nadar, da Vacquerie a Stieglitz), si trovano anche fotografie commerciali e amatoriali; accanto a mani anonime, mani per così dire emblematiche delle celebrità cui appartengono, strumenti fondamentali per le arti che costoro rappresentano: quelle di ballerini, mimi, scrittori, pittori e scultori del calibro di Nijinsky, Deburau, George Sand, Degas e Rodin.

Avvocato e maestro d’eloquenza del primo secolo dopo Cristo, nella sua opera fondamentale “Institutio Oratoria“, Marco Fabio Quintiliano, asseriva: “Il numero dei movimenti di cui le mani sono capaci è incalcolabile ed uguaglia quasi quello delle parole… Le mani parlano, o poco ci manca. Esse pongono domande e fanno promesse, esse chiamano e congedano, minacciano e supplicano. Le mani esprimono orrore, timore, gioia, tristezza, esitazione, confessione, pentimento, misura, abbondanza, quantità, tempo. Esse non hanno forse il potere di incitare o di calmare, di implorare, di approvare, di ammirare, di testimoniare il pudore?”.

Poeta, incisore e storico dell’arte (medievalista) Henri Focillon scrive “Éloge de la main”, accordando alla mano un valore tutto speciale nella “creatività” umana.

La mano, come si può dedurre persino dalle preistoriche pitture rupestri – le cui prime manifestazioni sono appunto impronte di mani -, è da sempre considerata il simbolo principale dell’espressione umana, meglio della sua espressività che si fa atto e oggetto, e infine progresso (così che Alfred Stieglitz intitola “The Hand of Man” un suo scatto in cui una locomotiva procede in mezzo a una nuvola di fumo).

Nella ritrattistica di tutti i tempi la mano connota il carattere del soggetto al pari del viso e dello sguardo. Per questo i primi fotografi – che si sentono discepoli della pittura, ne acquiscono i codici, e li ripropongono nel loro lavoro – spesso corredano i loro studi di oggetti i quali in mano ai clienti conferiranno loro una posa più significativa e “naturale”. L’antesignano di tale pratica è proprio Adolphe-Eugène Disderi, l’artefice della larga diffusione del ritratto (grazie alle sue carte-de-visite). L’oggetto più in voga è il libro, pratico per le sue dimensioni, evocatore di cultura e riflessività.

Non solo elemento del ritratto, la mano appare in fotografia anche come “studio”, ad uso e consumo di artisti e studenti delle Belle Arti, e perfino come puro esperimento della tecnica fotografica (è il caso della “mano del banchiere D.”, foto inviata da Nadar alla mostra della Società Francese di fotografia nel 1861 a testimoniare il proprio modo di procedere in presenza di “luce elettrica”). Nel caso poi di Bronia Wistreich-Weill, le sue immagini di mani giunte, che ricordano pezzi di Rodin, partecipano di un’estetica del frammento sviluppatasi nel corso del XIX secolo.

Sicuramente densa di suggestioni dal passato e di testimonianze di un’epoca che appare ormai remota, la mostra parigina offre molti spunti di riflessione estetica, storica, e persino filosofica in un’epoca come quella attuale in cui il mutato approccio alla nostra esistenza rende forse la mano meno simbolicamente pregnante degli occhi con i quali esperiamo il mondo, ormai a debita distanza, guardandoci bene dal “toccar con mano” la realtà.