
Martedì 8 maggio, alle ore 18, s’inaugura presso la Libreria Agorà di Torino (in via Santa Croce, 0/E) la personale di Zoltan Nagy “Strada facendo – passeggiate torinesi d’inizio millennio”, che resterà aperta fino al 30 giugno, e presenta una selezione di 25 fotografie in bianco e nero, tratte da un più ampio corpus di circa 120 immagini, scattate nel capoluogo piemontese nel corso degli ultimi 5 anni.
Italiano d’adozione, Nagy è nato a Budapest e si è formato in Germania alla celebre Folkwangschule für Gestaltung di Essen. Specializzatosi in fotogiornalismo, e trasferitosi in Italia nel 1974, egli è membro dell’Associazione della Stampa Estera, nonché collaboratore d’importanti testate in lingua tedesca, svedese e danese. Molto noto nella natale Ungheria,dove sue fotografie fanno parte delle collezioni permanenti di diversi musei, nel nostro Paese è immeritatamente poco conosciuto, sebbene abbia al suo attivo la pubblicazione di vari libri ed abbia già esposto la sua opera sia in collettive che in personali.

La mostra di Torino, di cui parliamo, è un’ottima occasione per conoscere il suo talento, poiché in essa si dispiega la sua arte fotografica. Un’arte garbata e dai toni – si potrebbe dire – sussurrati, se confrontata alla prassi fotografica attuale, strillata, che così spesso incontriamo nelle mostre e sui giornali, e che vediamo premiata per il suo sensazionalismo privo di spessore, nel quale tutto si risolve in un unico sguardo; che passa inesorabilmente avanti senza riflettere.
Zoltan Nagy, invece, qui come altrove, suggerisce la realtà lasciandola aperta alla nostra lettura: senza dichiarare e senza imporre un punto di vista unico.
Esiste un punto di vista, è vero, che è quello ottico, scelto dal fotografo – per le sue rispondenze formali e compositive, oltre che semantiche – con una cura così impeccabile da dare l’illusione perfetta di una naturale immediatezza; però, come dovrebbe sempre accadere nelle creazioni artistiche, le sue immagini ci mettono in una posizione dialettica nei confronti della realtà, più che di fornirci univoche risposte.

Tale intento si manifesta perfino nella ricorrente scelta di un doppio “fulcro” all’interno delle scene riprese, per cui il nostro sguardo vaga incerto dall’uno all’altro soggetto presente, senza stabilire a priori gerarchie d’importanza e, senza acquietarsi pigramente appagato, è guidato a percorre linee di fuga e traiettorie in andata e ritorno, scoprendo nuovi dettagli, formulando nuove ipotesi, e ponendosi nuovi interrogativi sul significato di quella che solo ad occhi distratti può apparire piatta quotidianità.
La fotografia di Nagy è davvero prossima alla “scuola francese”: per il suo atteggiamento umanistico, come per il mettere a fuoco con perizia e instancabile curiosità dettagli solitamente trascurati della vita cittadina d’ogni giorno, che pur sotto gli occhi di chiunque spesso sfuggono nel flusso del tempo; ma sopratutto – come ha scritto Bruno Boveri – “per la leggerezza del tocco e la sottile ironia, per il gusto del paradosso e del contrappasso (prolungamenti artificiosi, rimbalzi iconici e semantici, ripetizioni formali, quasi auto-citazioni interne ad alcune immagini, e ribaltamenti prospettici)”.
Chiudendo la rassegna “Torino 1 città 1000 città”, il lavoro di questo fotografo rappresenta una postilla alla manifestazione, perché – come sottolinea lo stesso Boveri – ci mostra dopo le visioni di un capoluogo che si trasforma, un aspetto più abituale della città, nel quale, però, la si scopre ormai trasformata: torna il paesaggio urbano consueto ed unitario, ma popolato di nuovi personaggi, e pervaso da una nuova multietnicità, che fa sembrare Torino mille città.
