Per incontrare le esigenze del mercato artistico che l’ha accolta nelle sue più prestigiose “vetrine” mondiali (centri d’arte, musei e gallerie), la fotografia di questi anni d’inizio secolo ha dovuto rifarsi il trucco e riproporsi in una veste più patinata ed esclusiva, da “vero oggetto d’arte”, il che è stato favorito dall’accettazione delle tecnologie digitali.
Quella che segue, è un’intervista rilasciatami da Massimo Vitali diverso tempo fa, ma più che mai attuale dal momento che FotoGrafia 2007 (in corso a Roma fino al mese di giugno) ci propone un’indagine sulla fotografia contemporanea italiana, della quale Vitali è uno degli esponenti più celebrati a livello internazionale.
Lo scorso anno, a conferma dell’importanza che nel suo lavoro riveste il digitale e di come la fotografia artistica a queste tecnologie sempre più attinge, egli ha partecipato a DIGIARTE, manifestazione di arte contemporanea che annualmente (quest’anno parte l’11 maggio) a Firenze “si propone di dare rilievo e visibilità alle forme che spaziano dalla fotografia digitale alla creazione di opere con programmi di grafica“.
Credo sia interessante meditare sulle parole di questo artista, che certamente ha il polso della situazione odierna, per capire quale tipo di meditazioni spesso sottende l’arte e la fotografia al giorno d’oggi.
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Opera d’arte e oggetto commerciale
(Intervista a Massimo Vitali. Giugno 2004)
In occasione della mostra Italia. Doppie visioni, abbiamo incontrato Massimo Vitali; presente anche con una personale alla Galleria Next Door di Roma, l’autore ci ha parlato fra il serio e il faceto della propria concezione della fotografia.
Può parlarci delle sue fotografie, del loro impatto espositivo dato dal grande formato, dal materiale che usa?
Le mie immagini nascono come oggetti. Io nasco come fotografo: ho sempre fatto foto da quando avevo sedici anni. C’è stato un excursus (con il cinema e il resto), ma ho sempre continuato a fotografare.
Quando ho iniziato questo progetto (perché a un certo punto mi son detto: – ora faccio quello che mi pare, non voglio più ascoltar nessuno -), mi sono accorto che in Italia non c’era un interesse per la fotografia come arte contemporanea; comincia ad esserci ora. Facevo le foto, alcune delle quali fanno parte di questa serie delle spiagge, e la gente mi chiedeva: – Ma tu come le vuoi fare? Ma la cornice? -. Mi sembravano discorsi da pazzi; come la cornice? Uno compra la foto e se la mette in cornice…
La cosa assurda è che questo succedeva nel ’95. Oggi, anzi già da qualche anno, ai giovani che mi chiedono come fare, rispondo: – Guardate ragazzi, la prima cosa è sapere che cosa volete fare della foto. La foto è diventata un oggetto e l’oggetto deve avere delle sue caratteristiche -.
Dal momento che la foto è diventata parte dell’arte contemporanea, ha dovuto assumere il bene e il male di questa: deve, cioè, essere una cosa che può essere venduta, trasportata, commercializzata. Ma deve anche avere una sua interezza, un suo carattere totale, una sua caratteristica precisa.
Così io ho deciso di fare un certo tipo di foto: nel sandwich di plexiglass, perché è un’immagine che sembra una grande cartolina, che vola un po’ distante dal muro.
Non ha una cornice esterna. Ha una cornice posteriore d’alluminio e il sandwich di plexiglass è fatto in un certo modo; resta staccata 5 o 6 cm dal muro. Ogni cosa ha la propria funzione, è studiata; è una mia scelta. Le mie foto sono tutte così.
Ognuna di queste scelte è connessa al contenuto delle foto? E’ connessa al mercato dell’arte contemporanea. Mi sembra già un’ottima motivazione… Le mie foto sono però sempre così e, se mi commissionano una foto, la gente deve capire che il risultato finale del mio lavoro è quello lì.
Cosa mi può dire riguardo al contenuto di queste immagini?
Il contenuto è poco interessante. E’ vero, potrebbe essere la parte migliore, ma in effetti io vedo che il contenuto si va sempre più assottigliando. La cosa importante è il modo in cui è fatta la foto.
La foto segue una specie di rituale, prevede l’utilizzo di certe cose, come questo cavalletto su una piattaforma a cinque metri e mezzo, per avere sempre la visione dall’alto. C’è poi la messa in opera del cavalletto, la scelta di un certo tipo di macchina.
A monte della fotografia c’è già tutto un progetto, come anche a valle: c’è il progetto, che prende le immagini e le fa diventare oggetto.
A monte della fotografia c’è un certo tipo d’immagine fotografica, una certa posizione, la ricerca di un certo tipo di luogo, per cui alla fine la fotografia – l’immagine in sé stessa – ha un’importanza limitatissima.
Anche perché, secondo me, nella fotografia contemporanea – che è stata investita dall’arte contemporanea – ha sempre meno importanza lo scatto, cioè come e quando avviene, mentre sono invece importanti tutte le cose a monte e a valle.
Il processo fotografico, dunque.
Il processo fotografico; che si è dilatato e quindi il momento in cui viene fatta la foto è una cosa così… L’inquadratura della foto potrebbe essere un po’ più a destra un po’ più a sinistra, e cambia pochissimo. Difatti, nelle foto a volte faccio piccoli spostamenti, ma non cambia nulla.
Quello che conta per me è il progetto.
Cosa riguarda tale progetto?
Il progetto riguarda il punto di vista, la macchina fotografica, la scelta del luogo: tutte queste cose insieme.
Da cosa scaturisce l’interesse verso un certo tipo di soggetti? E’ forse di carattere sociologico?
E’ senz’altro un interesse sociologico, ma la mia ambizione, in realtà, è quella di dare una documentazione che duri nel tempo; è che, fra cinquanta o cento anni, la gente possa usare queste foto per vedere come eravamo oggi, più che se vedesse altri tipi di foto che vengono fatti oggi. Cerco, per così dire, di storicizzare la spiaggia, la discoteca…
C’è l’intenzione di rendere anche un particolare clima emotivo?
No. Penso che oggi la fotografia debba essere un’immagine abbastanza complessa; non lineare, semplice e digeribile in un solo colpo.
Va vista, riguardata, digerita, riguardata un’altra volta. Vanno capite le piccole cose che fanno la nostra vita. La realtà viva, con i rapporti interpersonali, le piccole cose che non voglion dir nulla, ma che ci circondano e sono la nostra vita quotidiana.
Ho sempre pensato che in qualunque momento ci siano talmente tanti layers di cose che succedono. Io cerco proprio di far vedere questo: che ci sono tante cose, tanti strati. Tante stratificazioni, tanti modi di vedere. Per cui anche un evento ha un interesse limitato, se non è inserito in un insieme. Prendiamo ad esempio una foto di cronaca: c’è uno che ammazza; però magari dietro c’è il fiorista e c’è un signore che compra i fiori dal fiorista, e poi dietro c’è uno che sta chiudendo la saracinesca del negozio, poi ancora c’è uno che va in motorino… Io voglio vedere quel che succede laggiù in fondo.
Diventa più importante l’ambiente piuttosto che l’evento.
Le mie foto sono in-eventuali. Le mie foto non hanno eventi, o meglio hanno dei piccolissimi eventi che le caratterizzano.
Quasi “foto ambient”? Come la musica ambient, con il suo minimalismo, la ripetizione seriale delle frasi musicali con piccole variazioni.
Esatto, la ripetizione con piccole variazioni. Si, mi sembra ben trovata questa definizione di “foto ambient”.
Le sue fotografie subiscono già la contaminazione di altri linguaggi, fra gli altri quello cinematografico. Si può pensare, in futuro, anche ad altri tipi di contaminazione?
Da parecchio tempo sto cercando di fare delle opere animate; vagamente, poco animate. Con una colonna sonora. Probabilmente comincerò a lavorarci quest’estate.
Ho già pensato parecchie volte di fare delle foto animate o parzialmente animate: con delle zoomate su dei particolari; dove la zoomata visiva va di conserva con una zoomata audio, dove cioè l’audio diventa sempre più selettivo insieme all’immagine. Insomma l’idea sarebbe di partire da una foto di spiagge dove c’è tutto una ambientazione, un substrato di gridolini, di acqua, di altre cose, e zoomare su un particolare, con l’audio che stringe; poi il particolare che io scelgo si anima.
Questo portare la fotografia sempre più fuori dei suoi ambiti, vuol dire forse che la fotografia non ha in sé più niente da dire?
No. E’ perché la fotografia fa parte dell’arte contemporanea. Non può più stare a guardare la carta baritata in b/n. Ma non solo: la fotografia, secondo me, meno dura e meglio è… alla faccia del collezionismo. Va venduta, poi si deve rovinare!
Non avevo mai pensato a questo.
Quei poveracci del Rinascimento hanno fatto delle robe che sono ancora lì, si son bruciati il mercato, e non solo: l’hanno bruciato per generazioni a venire. La fotografia deve essere una cosa…
Effimera?
Effimera, si; che si autoconsuma. I collezionisti ti chiedono: – Ma dura? E quanto dura? – (perché loro vogliono che duri 500 anni). Ma chi se ne frega! Non lo so, e non m’interessa, perché finché ci sono io, te la rifaccio, poi…
Rosa Maria Puglisi
pubblicato su Cultframe
Non condivido le ultime risposte di Vitali.
La fotografia è un’immagine che non ha bisogno di animazione, è un’istantanea, un movimento fermato, altrimenti c’è la cinematografia, dalla quale non deve essere necessariamente contaminata. La sua colonna sonora suona nelle orecchie di chi vede, non nelle casse di un impianto sonoro. La foto si nutre di silenzi, le sue lancette sono immobili e non fanno tic-tac. Che poi possa essere semplice o complessa, testimone di eventi o solo “ambient” non conta, sono tutte sue sfumature possibili.
Per quanto riguarda quei poveracci del rinascimento che si sono bruciati il mercato, francamente penso che non sapessero nemmeno cosa fosse il mercato (almeno per come lo intendiamo noi figli del capitalismo e del consumismo). Credo che fossero concentrati di più su beni immateriali come la fama e l’immortalità.
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