Dopo aver parlato di Fontcuberta, che fa meta-fotografia con un approccio semiologico, mi sembra quasi scontato parlare di qualcuno che ha dato un fondamentale apporto nell’indagine degli elementi costituitivi della fotografia e del suo linguaggio. Perciò inserisco a questo punto un articolo sull’opera di Ugo Mulas, pubblicato tempo fa su Cultframe (là troverete anche una scheda biografica sull’artista).

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L’intera vicenda artistica di Ugo Mulas è circoscritta in un arco temporale di poco meno di un ventennio, durante il quale egli lavora molto intensamente, trasformando un iniziale interesse per l’arte piuttosto generico in un rapporto con essa sempre più stringente, che lo porterà infine a tentare una definizione puntuale del proprio strumento d’espressione in relazione all’arte stessa.
I suoi inizi improntati ad un classico reportage sociale, sia pure distante dalle mode dell’epoca, perché in polemica con l’assunto bressoniano del “momento decisivo” – considerando egli ogni attimo irripetibile e quindi “decisivo” – non lasciano presagire i successivi sviluppi: sono, infatti, ancora incerti tentativi “di stabilire un contatto fotografico con la realtà” attraverso immagini melanconiche, dal gusto neorealistico, nelle quali uomini ridotti a ombre lontane tirano letteralmente la carretta per vivere, spersi fra le nebbie della misera periferia milanese di quegli anni. La stessa nota serie di scatti al Bar Jamaica, definita dall’autore secondaria, non mostra più che un approccio incuriosito nei confronti dei pittori emergenti che si riuniscono in quella specie di “latteria”, come avevano fatto un tempo i loro illustri colleghi dada nei caffè parigini; malgrado qualcuno vi abbia ravvisato i segni precoci di “un’attenzione al problema del personaggio”, il fotografo consapevole della peculiarità degli atteggiamenti artistici, che una diecina di anni dopo fotograferà Duchamp, è ancora di là da venire.
La frequentazione del Jamaica e dei suoi avventori, ad ogni modo, ha avuto di certo un peso non indifferente sulla formazione di Mulas, che lì si ritrova immerso nel dibattito fra realismo e astrazione, così vivace in quegli anni. Pur non essendo la sua visione della fotografia all’inizio diversa da quella di un qualunque fotoamatore, che si concentra più che altro sugli aspetti tecnici della macchina fotografica, e sulle potenzialità della camera oscura, per produrre immagini documentarie “corrette”, una rapida maturazione in lui di nuove e più profonde esigenze appare già chiara nel primo vero lavoro da fotogiornalista, il reportage della Biennale di Venezia del 1954. Qui l’attenzione di Mulas è sì, come pare logico vista la natura commerciale di questo lavoro, rivolta alla rappresentazione del particolare clima da grande manifestazione mondana oltre che culturale, ma ciò non lo distoglie dal proporre un suo punto di vista interno all’evento artistico, valorizzando soprattutto la ripresa di momenti d’allestimento delle sale, e di aspetti fruitivi delle opere. Un modus operandi che lo accompagnerà in ogni successivo reportage delle Biennali: spesso avrà occasione di ritrarre negli spazi espositivi illustri visitatori quali noti critici e galleristi in muto dialogo con gli oggetti artistici esposti, ma ancora più frequentemente artisti, accanto alle proprie opere; fra quest’ultime e i loro autori pare cercare una relazione, per così dire, di “rispecchiamento” fisico o comportamentale.
Del suo lavoro alle manifestazioni veneziane Ugo Mulas scriverà: “ho sempre più precisato l’aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell’esibire e dell’esibirsi, che nei pittori non mancava di aspetti autopubblicitari… il mio non poteva essere un atteggiamento critico, non c’era da capire quanto da registrare”. Con l’edizione del 1964, caratterizzata dall’irrompere dei Pop Artist americani, la Biennale toccherà, per lui, il culmine, cui seguirà l’inevitabile declino e la fine rappresentata dalla contestazione del ‘68: “la mia ultima foto, in certo modo, è quella di un pittore trascinato via da un gruppo di poliziotti sotto i portici del caffè Florian, in un ammasso di elmetti e manganelli”.
In realtà, dopo quella fotograferà altre due edizioni, ma tutto è cambiato fuori e dentro di lui che sa di essere gravemente malato: all’inizio degli anni Settanta l’arte contemporanea, e l’ultimo Mulas, che ne è fortemente influenzato, si esprimono attraverso il linguaggio della concettualità.
Alla notizia della sua morte, la stampa si prodigherà nella celebrazione di questo fotografo così particolare, e andrà avanti per oltre un anno nel tentativo di incasellare in qualche modo il suo lavoro. I titoli di due articoli, apparsi sul “Corriere della Sera” nei giorni immediatamente successivi quello della sua scomparsa, in particolare, offrono spunti di riflessione sul tipo d’interpretazione che si dà in quel momento all’opera di Mulas: l’uno afferma che egli “usava gli obiettivi con l’arte del pittore”, l’altro che era stato “fotografo dei pittori”. Così il suo lavoro viene talora innalzato alla dignità di creazione originale, subordinata però in qualche modo all’Arte (“con la a maiuscola”); talora ridotto all’interno della cosiddetta “Fotografia d’arte”, riconoscendo comunque all’autore non poca abilità nel documentare e interpretare l’arte altrui. Definizioni entrambe restrittive, che non gli rendono giustizia.
E’ abbastanza scontato che Mulas, avvicinandosi alla fotografia, manifesti subito un particolare interesse verso soggetti come gli artisti e l’arte: è al Bar Jamaica, dove ancora studente dell’Accademia di Brera “bivacca” fra quei pittori che per lui sono un po’ colleghi un po’ modelli da emulare, che si ritrova a fotografare quasi per caso. All’inizio non fa altro che ritrarre la propria cerchia di amici e conoscenti. In realtà, visti i contatti e le relazioni che stabilisce durante le Biennali, si può dire che continuerà a far così anche in seguito. In fondo, Mulas si trova sempre ad agire fra pari e scatta con occhio esperto ed informato; non è mai un semplice testimone con in mano uno strumento neutrale di registrazione della realtà, malgrado per tanto tempo pretenderà di esserlo.
Come egli stesso avrà poi modo di notare, proprio questa sua voglia di non intervenire e di non giudicare, diventa un punto di vista molto evidente, e addirittura una cifra stilistica personale.
Il suo approccio non è studiato, dunque, ma istintivo, almeno fino al suo primo viaggio in America dove, oltre a calarsi nella più fervida atmosfera creativa del momento, ha con Robert Frank un incontro illuminante riguardo all’acquisizione di una consapevolezza del proprio operare.
Nell’accostarsi ai vari discorsi artistici contemporanei, Ugo Mulas rivela un’attitudine da critico d’arte, che passa al vaglio del mezzo fotografico operazioni eterogenee fra loro per capirle e spiegarle secondo una propria sensibilità ermeneutica.
“Davanti alla fotografia”, scriverà, “ci si trova spesso come di fronte a un pensiero senza linguaggio, inespresso; si possono avanzare mille supposizioni, ma non si è sicuri di centrare la giusta”, tuttavia, aggiunge citando un noto etologo, “anche usando le parole l’immagine del pensiero può solo trasparire, non mostrarsi nella sua medesimezza”. Egli riconosce quanto la sua posizione di fotografo sia delicata, avendo egli a disposizione un linguaggio “non verbale” per cercare di trasmettere l’essenza di un altro linguaggio anch’esso puramente visuale (e difficilmente verbalizzabile, se non rischiando di tradirne il vero senso), quale è quello dell’arte.
La soluzione che Mulas sceglie, dinnanzi alla specificità delle diverse situazioni che gli si presentano, è quella di cambiare atteggiamento di fronte a ciascun artista, così il “fotografare si risolve in uno studio sul comportamento”. L’atteggiamento dell’autore rivela l’intenzione insita nell’opera, ne diventa quasi chiave di lettura. Ciò traspare dalla maggior parte dei ritratti che fa a pittori e scultori nei loro studi, di fronte alle proprie opere, quando non addirittura nell’atto di crearle.
Così operando, immerso in un clima culturale nel quale i quesiti sull’essenza del fare artistico e sulla definizione stessa di ciò che è arte sono al centro delle prassi creative non meno che dei discorsi critici, egli si avvia alla sua ultima e più nota serie d’immagini, con la quale intende chiosare l’intera sua carriera, molto più che con gli scritti apparsi nel libro “La Fotografia”, pubblicato nel ‘73, anno della sua morte.

Forse per una voglia di far ordine nelle proprie cose, forse per un desiderio di affrancarsi da un certo ruolo, nell’ultima fase della propria vita Ugo Mulas abbandona il realismo e la rappresentazione della realtà, e si dedica a trasformare – con un’operazione metalinguistica degna della migliore Arte Concettuale – i propri interrogativi sulla natura della Fotografia in veri e propri oggetti artistici.
Presentate, nella forma d’immagini di grande formato montate su alluminio e incorniciate in plexiglass, come a sottolinearne il carattere di opera d’arte contemporanea, “Le Verifiche” sono un progetto che Mulas porta avanti fra il 1971 e il 1972: si tratta di quattordici foto, ciascuna delle quali è il risultato di una precisa “operazione fotografica”, il cui scopo – scrive il loro autore – “era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in se stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico”.
Un titolo ed un testo scritto, come pure (quasi sempre) una dedica, spiegano puntualmente l’idea sottesa ad ognuna di queste operazioni. Apre la serie un “Omaggio a Niepce”, che indaga, attraverso la “stampa a contatto” di un rullo vergine sviluppato, il grado zero della scrittura fotografica ossia la superficie sensibile; la chiude un’immagine, dedicata a Marcel Duchamp, identica alla prima, se non fosse per il fatto che il vetro, posto per premere le strisce di pellicola e per riquadrare la composizione, qui è stato spezzato a simboleggiare la fine della serie stessa, come pure una rottura col passato. Fra questi due estremi l’autore iscrive ciò che per lui è la Fotografia, i suoi elementi costituitivi e il loro valore intrinseco: dal Tempo, che altrove si era manifestato sotto forma di narrazione per sequenze e fermi immagine, e che qui si riduce ad ossessiva ripetizione; allo Spazio, che qui è “dimensione idealizzata” in una foto non scattata; fino all’autoritratto, “ossessione di essere presente”. Ogni elemento fondamentale della pratica fotografica è messo a fuoco con acutezza intellettuale.
Con quest’opera, figlia del proprio tempo, ma tutt’oggi gravida di spunti, Ugo Mulas si consacra infine artista, oltre che teorico del proprio mezzo d’espressione, e ci lascia il suo contributo più interessante ed originale.

Rosa Maria Puglisi

Un interessante approfondimento sulle “Verifiche” lo troverete in uno scritto di Carmelo Amore su  http://www2.unibo.it/parol/articles/verifiche.htm#4