Riagganciandomi all’incontro segnalato nel post precedente, vorrei parlare di una questione più che mai scottante: la problematicità del ruolo di strumento basilare per la testimonianza del reale che alla fotografia viene comunemente attribuito.
Se la tragedia dell’attentato alle Twin Towers, costituisce certamente l’evento più documentato a livello visivo della storia e quello che ha in un certo modo, proprio attraverso un’infinità di rappresentazioni fotografiche e televisive, scosso le nostre coscienze aprendo un baratro davanti ai nostri occhi – e facendo crollare le nostre sicurezze quotidiane -, certamente la sua rappresentazione mediatica non ha minimamente scalfito l’incrollabile certezza dei più che si possa prestar fede in tutto quel che “vediamo coi nostri occhi”, fotografie incluse.
A molti piacerà a tal proposito la lettura del libro di Nicholas Mirzoeff “Introduzione alla cultura visuale”, ma le prove più vivide dell’errore, in cui s’incorre nel credere ai cosiddetti documenti fotografici, possiamo trovarle nel lavoro dell’artista catalano Joan Fontcuberta.
A poco più di un mese di distanza dall’epocale evento del quale s’è detto, egli si trovava per una conferenza a Roma, al palazzo delle Esposizioni, dove era allestita una sua mostra, particolarmente faceta nelle apparenze, in realtà pregna di risvolti creati ad hoc per instillarci il dubbio riguardo all’intero mondo dell’immagine. La “missione” alla quale l’artista si ritiene vocato è, infatti, la de-costruzione dei meccanismi comunicativi dell’informazione attraverso gli elementi di mediazione che la fotografia – per sua stessa natura – introduce rispetto alla realtà. Non la fotografia digitale, le cui imposture potrebbero sembrare evidenti, ma ogni tipo di fotografia dal dagherrotipo in poi. E non necessariamente con il mezzo del fotoritocco, ché già giocando banalmente con i tempi di esposizione persino i pionieri di questa tecnica potevano far sparire soggetti in movimento o evocare presenze fantasmatiche.
In quell’occasione (vedi articolo), Fontcuberta aveva introdotto il suo intervento proprio facendo riferimento all’attentato di New York, rimarcando il fatto che non esistono immagini asettiche ed inoffensive.
Ogni immagine sottende comunque – se non altro – una convenzione culturale. Per questo bisogna imparare a conoscere il “vocabolario fotografico”: gli elementi che compongono l’immagine al di là della sua evidenza di rappresentazione.
I tentativi di manipolazione dell‘immagine fotografica – non solo quelli meramente legati all’aspetto estetico dell’immagine, ma anche quelli legati alla comunicazione e alla sua lettura – sono sempre in agguato; e ben lo sa l’artista catalano che non solo è cresciuto nel clima della censura e della propaganda franchista, ma per di più si è formato professionalmente come giornalista e pubblicitario: due lavori che, senza mezze misure, egli definisce “magnifiche scuole di menzogna, d’illusione e di simulazione”.
Dal 2001 ad oggi questo artista ha allargato la sua indagine meta-fotografica, includendovi riflessioni sul paesaggio fotografico digitale (ricreato al computer su informazioni mutuate da celebri quadri e fotografie) in Orogenesis; e sul “conflitto fra immagini e parole” nell’era di Internet e Google, in Googlegrams, indagando sul significato simbolico di immagini-icona del nostro tempo in rapporto ad immagini del privato, per cui ad esempio i ritratti degli uomini più ricchi del mondo possono servire da tessere di mosaico per costruire l’immagine di un clochard. Infine, ha spostato recentemente la sua attenzione su come il rinnovato bisogno di spiritualità dell’odierna società s’incontri con ataviche forme di superstizione e credulità (Miracles & Co); e il linguaggio che ritroviamo in quest’ultimo caso è quello di un umorismo rivelatore, che a volte vale più di tante dotte disquisizioni.
Guardare l’opera di Fontcuberta, diventa così un modo piacevole per capire i meccanismi della comunicazione; e si rivela anche, proprio com’è nelle intenzioni dell‘artista, un modo per accogliere nella nostra coscienza l’anticorpo del dubbio. Quell’anticorpo della “visione critica”, che non dovrebbe essere riservato solo agli addetti ai lavori, ma dovrebbe essere patrimonio culturale comune soprattutto in un periodo storico come questo in cui fiorisce una certa “informazione selettiva”.
La fotografia è corretto definirla creazione.
Infatti il creare l’immagine presume un apporto dell’autore, sia che l’autore non ne sia cosciente sia ancor più se invece conosce il mezzo, e lo sa bene usare.
La semplice prerogativa di potere (e dovere) scegliere l’immagine da ritrarre, è gia censura e critica della realtà.
Il tipo di inquadratura, l’illuminazione, gia scoperte dai grandi pittori del passato, sono mezzi per conferire drammaticità e pressione emotiva ovvero chetazione e placamento delle sensazioni.
Ma lo stesso soggetto della fotografia è centrale.
E impossibile pensare ad una cronaca fotografica senza un “canovaccio” preparato a tavolino, o esistente, prima ancora che l’evento si verifichi.
Esiste già, creato nell’immaginario collettivo, l’opportuno substrato nel quale la notizia data dall’immagine ha gia la sua collocazione pronta.
Il principio di economia, ben noto in psicologia, governa, con la facilità delle aggiunte di mattoni ad una costruzione organica virtuale costituita che si consolida e cresce.
Sarà poi il caso, se opportuno, di demolire quanto costruito o addirittura di costruire – in antagonismo – un’altra struttura, sempre per economia, per quelli che cominciano a non riconoscersi più nel messaggio, o quando la costruzione semplicemente non regge.
Non è che la seconda sia più veritiera della prima.
Il creatore di immagini, se ha tale strumentalizzazione dell’arte, ed anche in malafede, non ha neppure il dovere di dare spiegazione.
Si può sempre invocare il fatto che formalmente la fotografia è visione a tutto tondo, quindi non unilaterale.
Che sia obiettiva è un altro discorso.
La facile riprova è il rincorrersi delle immagini giornalistiche che agganciano il carro delle vecchie edizioni proprie (ed altrui) per reggere la nuova immagine che è sostenibile solo sul castello gia costruito.
E’ anzi il rincorrersi ad essere più realista del re che crea la preparazione “di quello che servirebbe”.
E se si vuol trovare finisce che lo si trova, e se proprio non lo si trova… lo si crea.
C’è poi il commento che oculatamente orienta, dato che l’immagine potrebbe essere non ben “leggibile”; così la vittima può divenire il carnefice e viceversa.
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