“La luce dell’ombra” di Lorenzo Scaramella
Intrinseche alla natura umana sono la necessità di simbolizzare e quella di comunicare, dalle quali sono derivati il linguaggio orale, la rappresentazione artistica e, più tardi, la scrittura.
Fra le tecniche tramite le quali l’essere umano rappresenta a se stesso, ancor prima che agli altri, il mondo, quella della fotografia sembra destinata a smarrire più di altre il suo più profondo senso simbolico, sistematicamente risospinto indietro da una “evidenza” comunicativa sempre più ingombrante.
Complici le innovazioni del digitale, che hanno spogliato il processo fotografico di quella sua aura alchemica fatta di trasformazione della materia in luce e poi di nuovo in materia, la fotografia vive oggi una crisi che non è economica o quantitativa, ma qualitativa: un impoverimento di spessore – si potrebbe dire – perché tutto si esaurisce sulla superficie dell’immagine fotografica.
A queste riflessioni ci porta “La luce dell’ombra”, una mostra di Lorenzo Scaramella, che pone invece l’accento proprio sulla Fotografia, piuttosto che sull’immagine fotografica, come ormai quasi sempre accade.
Fotografo già in tenera età, Scaramella si laurea in filosofia per poi tornare alla sua primitiva passione, scegliendo di approfondire la conoscenza della techné fotografica attraverso la sperimentazione dei procedimenti più antichi, riscoperti direttamente su manuali ottocenteschi: dalla carta salata a quelle al platino o al palladio, dalla gelatina d’argento fino a metodi di stampa che paiono litografia. Da circa venti anni egli è fotografo e stampatore. Al suo attivo ha la pubblicazione di saggi e articoli, ma soprattutto di un libro compilato per l’I.C.C.D., “Fotografia, storia ed evoluzione dei procedimenti fotografici”, edito da De Luca. Insegna, inoltre, in Italia e all’estero tenendo seminari e corsi presso varie università.
La sua è una mostra preziosa, perché riesce a ricucire il passato al presente in un excursus che parte dalle antiche tecniche e giunge alla stampa digitale odierna; ripercorrendo una storia in cui risulta evidente come nel tempo la qualità sia sempre stata sacrificata alla produzione di massa, essendo molte tecniche antiche presto sparite, perché esigono tempi lunghi e materiali difficili da reperire ai più.
Chi stia a questo punto pensando alla mostra in questione come ad una pedante esibizione di cultura e di talento artigianale, non potrebbe aver equivocato di più. La cultura c’è, però nella forma di un’appassionata, ed appassionante, ricerca non solo tecnica (ma ricordiamo che il linguaggio fotografico ha nella tecnica la propria sintassi!) anche formale, la quale trova materia nelle pure volumetrie della scultura, per portare avanti un suo discorso sul Bello al di là del tempo; e la ritraduce in nuova materia simbolico-rappresentativa, portando alla luce nuovi sensi e nuove sensazioni.
E’ una cultura classica profondamente sentita quella che traspare, e che viene condivisa con chi sappia mettersi nella giusta sintonia.
Rosa Maria Puglisi