Si fa un gran parlare di fotografia come terapia sul web e altrove. C’è chi si mostra giustamente preoccupato da un dilagare di proposte terapeutico-fotografiche approntate alla bell’e meglio da persone, certamente in buona fede, ma che non hanno una preparazione per gestire le situazioni delicate che certi approcci troppo in profondità potrebbero provocare. E c’è chi semplicemente cavalca l’onda emotiva del riconoscimento di uno statuto psicologico per la fotografia, inteso nelle accezioni più disparate. Così che tutt’a un tratto fioriscono i progetti di fotografia terapeutica, spesso intrecciandosi e confondendosi con lavori più propriamente ricollegabili allo storytelling o addirittura a una concettualità ritenuta – forse – un po’ demodé e quindi da rileggere in una chiave più vicina alla sensibilità del pubblico attuale.
Fra le email che ricevo da voi mi è parsa emblematica quella che pubblico qui di seguito (insieme alla mia risposta). Ho chiesto al suo autore il permesso di pubblicare il nostro scambio di battute poiché mi pare possa fornire un qualche spunto a chi volesse approfondire l’argomento, nella speranza di sentire altri punti di vista e magari anche di sviluppare il nostro stimolati dalle vostre riflessioni.

Per quanto riguarda il bel libro citato sotto, resta il dubbio riguardo alla sua reale collocabilità in un filone terapeutico. Non ho sufficienti elementi per poterlo stabilire, mancandomi dati su come si è sviluppato tale percorso, ma certamente mi balza all’occhio principalmente il suo valore di ricerca estetica di carattere diaristico in cui materiali eterogenei confluiscono a creare il racconto di stati d’animo più che di eventi.
Ad ogni modo, buona lettura e buone riflessioni (che mi auguro vorrete condividere)!
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Oggetto: Anche a castelnuovo si parla di fotografia terapeutica
A Castelnuovo di Porto domenica [4 ottobre] pomeriggio c’è stata una interessante discussione durante la presentazione di un libro: Undici solitudini di Pamela Piscicelli. Un libro molto personale, intimo. Un libro difficile da leggere visivamente e difficile da decodificare e avvicinare attraverso un punctum, come diceva Pamela riferendosi a Barthes, di vissuto comune.
In effetti Pamela parlando del libro, più e più volte aveva fatto riferimento alla sua fotografia come autoanalisi, come terapia. Aveva raccontato delle sue difficoltà di relazione con il padre e come questo lavoro fotografico l’avesse aiutata.Nel dibattito è intervenuta Lina Pallotta, la quale, provocatoriamente le ha chiesto: Pamela, ma che malattia hai?
Naturalmente Pamela ha avuto difficoltà a rispondere. Non perché non sapesse il nome clinico della sua “malattia”.
Semplicemente Lina ha voluto forzare l’autopresentazione di Pamela per mostrarle che era eccessiva, inappropriata.
Non è meglio parlare di scoperta, ha suggerito Lina, rispetto al percorso interiore svolto con questo lavoro fotografico?
Dopo qualche altro chiarimento sulle parole utilizzate, tutti sono stati più soddisfatti del ribaltamento di prospettiva.Certo si è passati da un potenziale luogo comune ad un altro, ma almeno è di segno positivo. Sicuramente, ci sarebbero dei significati più propri sia per la fotografia come terapia che per la fotografia come percorso di crescita, sviluppati in contesti più specializzati. Però alla fine è stata una bella chiacchierata…
Mi faceva piacere raccontartelo visto il tuo interesse per il tema.
A presto.
Paolo.
Ciao Paolo!
Grazie per questo messaggio: trovo il tuo racconto, e le conclusioni all’insegna del dubbio che ne trai, molto interessanti e pertinenti. E’ assolutamente vero, in questo periodo “c’è nell’aria” questa idea della terapia e si finisce per generalizzare; soprattutto perché c’è l’impressione diffusa che – come diceva una vecchia canzone – “siamo tutti un po’ malati, ma siamo anche un po’ dottori”.
Questo per dirti che credo ci siano due diverse problematiche che vanno a collidere in questa faccenda: da un lato la voglia – assolutamente lecita – che ognuno ha di trovare mezzi per star meglio (in una situazione storica di depressione sociale diffusa),e dall’altro lato l’idea balorda che, senza avere una preparazione specifica (talora – non non nel caso che racconti – neanche in fotografia; e figuriamoci poi in psicologia!), il fotografare si trasformi in automatico in un processo di autoanalisi e autoterapia. Non è così semplice però, anche se la società dei consumi ci ha allenati a pensare che tutto sia a portata di mano, in questo caso recandosi a comprare un qualunque apparecchio utile a scattar foto.
La fotografia non è terapia “di per sé”, neanche quando si occupa di “mettere a fuoco” un malessere, che – tra l’altro – non dev’essere necessariamente “una malattia”.
A tal proposito trovo che la fotografia si presti, per esempio, ad affrontare un generico “male di vivere”, di tipo montaliano intendo, essendo un’attività che – se svolta con la dovuta consapevolezza – tende all’attribuzione di significati personali per l’ambiente (cose, fatti e persone) che ci circonda, e riesce anche a dare uno scopo alla nostra esistenza in quanto esploratori di tale ambiente.
Se è pur vero che questo attribuire significati al mondo e agli eventi attraverso gli scatti è anche la chiave di volta delle potenzialità terapeutiche della fotografia – consentimi la metafora architettonica – è chiaro pure che i piedritti che sostengono l’arco sono due, distinti e separati: la fotografia vera e propria (con tutto il suo portato artistico e concettuale) e la terapia.
Fotografia e terapia sono semplicemente due cose che possono talora confluire in un unico nodo, a sostegno dell’espressione personale, e sappiamo bene che ci si può esprimere con varie finalità, non sempre e solo con quella di
liberarsi d’un peso o di cambiare prospettiva sulla propria vita. Il più delle volte la fotografia è solo (e non è poco!) uno strumento di conoscenza e di comunicazione. Uno mezzo di “scoperta”, come suggeriva appunto Lina Pallotta, che non deve per forza fare i conti con un disagio per “curarlo”, ma che sicuramente dà a chi fotografa occasioni di crescita personale, ampliando – è il caso di dirlo – le proprie vedute su se stessi e sulle cose.
Confondere i due piani e tentare di farne un tutt’uno. magari finendo addirittura con l’asserire – e mi è capitato di sentire anche questo! – che la fotografia è sempre terapeutica, non giova a nessuno, in quanto finisce con lo svalutare da una parte quelli che sono lavori autenticamente vissuti come terapia, perché frutto di un processo consapevole e portatori di una trasformazione personale profonda, e dall’altra con lo stravolgere e omologare il senso di lavori che traggono valore da un costrutto concettuale, sol perché si immagina che parlare di terapia sia più in linea con il momento attuale.
Sai cosa penso Paolo? Che forse questo dialogo potrebbe diventare un post, uno di quelli utili a far riflettere anche altra gente su queste criticità. Ti andrebbe se pubblicassi il tutto?
Buona giornata!
RM
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Salve, il tema che ha toccato mi è piuttosto vicino. A causa di una “perdita” io sto portando avanti un progetto di fotografia terapeutica/doll-therapy: ho studiato in passato libri su la scrittura come riparazione e sull’arte terapia, dove appunto anche la fotografia era considerata un’opportunità per rielaborare “lutti” o “esperienze traumatiche”. Mi interesserebbe a ogni modo avere il suo parere sul mio lavoro, se è possibile.
Il progetto si chiama “Toi et moi” .
Le allego il link.
https://biancacomeilsangue.wordpress.com/
La ringrazio in anticipo.
Veronica.
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Ciao Veronica, che dire? Mi pare che tu ti sia preparata per svolgere questo lavoro fotografico in una maniera congrua alla cosiddetta fotografia terapeutica, visto che ti sei documentata riguardo alle pratiche ad essa afferenti.
Darti un parere sul tuo lavoro però mi è difficile, poiché non ho nulla a cui appigliarmi se non le immagini, che fatalmente finirebbe per specchiare le mie personali proiezioni. Di fatto quando si parla di fotografia terapeutica non si può prescindere dal partire dal senso che l’autore/autrice delle foto ha dato ai suoi scatti.
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Ok, si in fondo è vero. grazie mille della risposta. buona giornata. Veronica
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Ho avuto il piacere di partecipare alla discussione come moderatrice della presentazione del libro di Pamela e penso che questo suo lavoro stia producendo delle reazioni di critica e pubblico molto molto interessanti. Penso anche che sia così perchè la sua questione personale e specifica si sia evoluta in un progetto che per ricerca estetica e valore intrinseco alla fotografia ha saputo tirare le corde di molti
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Ti ringrazio per questa testimonianza, Francesca. Credo tu abbia ragione dicendo che quelle immagini riescono a toccare le corde del cuore della gente. Al di là del fatto che si debba intenderle o meno come lavoro di fotografia terapeutica.
Come dicevo in risposta al commento precedente, non mi voglio pronunciare su questo non avendo neanche in questo caso elementi sui significati e sul percorso, su come la fotografa lo ha inventato (inteso come “trovato” dentro di sé) né su come ha inteso svilupparlo.
Mi piacerebbe piuttosto sapere quali sono state le tue emozioni guardandolo,
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Ero presente all’incontro e vorrei contribuire a questo scambio con le mie sensazioni a riguardo, in riferimento al racconto di Paolo. Più che a un ribaltamento di prospettiva mi è sembrato di assistere ad un incontro/sintesi di ‘modus esprimendi’: la provocazione (io preferisco ‘suggerimento’) di Lina Pallotta è stato infatti immediatamente accolto dall’autrice e accompagnata da una esplicita espressione del viso che definirei “luminosa”, come ulteriore contributo di comunicazione non verbale nello scambio in atto.
A mio parere, fatte salve le necessarie distinzioni fra percorso terapeutico classicamente inteso e la funzione terapeutica dell’espressione artistica, è l’utilizzo di certi termini quali terapia, cura, ecc. che è destinato a incontrare resistenze nell’ascoltatore, a causa del carico che gli si attriibuisce comunemente in senso negativo e non perchè sia inappropriato o eccessivo. Nella specifica situazione di cui stiamo discorrendo, il termine ‘scoperta’ proposto da Lina ne è sembrato quasi un sinonimo, una parte del medesimo processo a completamento dell’esperienza introspettiva.
La presentazione del lavoro di Pamela a Castelnuovo Fotografia è stata per me ricca di entrambi i termini, allo stesso modo significanti, divenuti sintesi immediata per le stesse ragioni di stretta connessione che ho provato a descrivere.
Inoltre ho potuto apprezzare, in occasione della mostra-installazione dello stesso lavoro nell’ambito dell’Umbria World Fest, quanto “leggero” sia il risultato del percorso di Pamela, di quella leggerezza che è soluzione. O comunque è questo il mio augurio.
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Grazie per la condivisione! Il motivo di questo post, come dichiarato del resto, è quello di cercar di mettere in luce come non basta ripetere dei luoghi comuni verbali o visivi per trasformare qualcosa in qualcos’altro. La mia sensazione è che ci sia un’inflazione di lavori che vogliono essere accolti come terapeutici, mentre nascono in verità da altre motivazioni personali. Ribadisco che non sto parlando di Pamela Piscielli, in quanto non ho elementi che possano farmi propendere per l’opzione terapeutica, o che me la possano far negare.
E, d’altronde, vista la mia storia, i miei studi e i miei interessi personali, questo post è ben lungi dal voler asserire che non esiste la fotografia terapeutica o che sia una baggianata. Tant’è vero che ho anche cercato di parlare nello specifico di questi argomenti in un altro spazio, collegato a questo: In-Sight (vedi http://rosamariapuglisi.wordpress.com)
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Condivido Rosa Maria. Sono d’accordo sull’inflazione di lavori con pretesto terapeutico, sull’importanza di distinguere fra percorso terapeutico e possibile valore terapeutico dell’espressione artistica (se completato nelle sedi opportune, ove desiderato e/o riconosciuto come esigenza), sulla cautela nell’esprimersi sui singoli casi senza stringerne tutto lo spettro di informazioni necessario e/o avendone la competenza adeguata.
Riportavo invece, forse – e me ne scuso – spingendo un pò over-quote il tema, un diverso ricordo della giornata a Castelnuovo, a comprova della molteplicità di sfumature che ogni singolo sentire porta con se.
Grazie a te per l’occasione, approfondirò gli altri contenuti che hai proposto.
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Siamo arrivati ad una situazione di tale paura, personale e sociale, che la paura stessa é una malattia. Purtroppo la madre di tutte le paure é la paura di vivere e, per questa malattia, l’unica cura realmente efficace é la nera signora. Aspettando la sua certa venuta dobbiamo accontentarci di cure palliative, che, in questa ottica, possono essere le più disparate(e disperate), ma che, in ultima analisi, si possono riassumere con una parola: Vivere.
In questa ottica, a parte le quantità sempre maggiori di medicinali che siamo spinti ad ingurgitare, diventano terapeutiche tutte le attività che abbiamo abbandonato con disprezzo: ridere, meditare, immaginare, chiacchierare con gli amici, danzare, ascoltare musica, guardare le nuvole, fotografare e fare qualsiasi altra cosa sciocca, inutile, creativa, non per denaro, non per uno scopo, ma per il semplice piacere di farlo, impegnando tutto il nostro essere, come se fosse la cosa più importante del mondo!
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Frequentando e/o conoscendo da molto tempo le persone che vanno in terapia e quelli che la gestiscono, continuo a non capire l’uso del termine terapia in questi casi. Riesce persino ad infastidirmi. Il mondo dell’arte è pieno di persone che utilizzano l’arte per far emergere i propri vissuti – da sempre – ma questo non autorizza a parlare di terapia e credo che sarebbe meglio utilizzare altri termini. C’è nell’ambito educativo, ad esempio, il lavoro sulle biografie di D. Demetrio (per dirne uno) che mi sembra molto più pertinente. Rielaborare la propria e altrui biografia ha il senso di ritrovare un proprio spazio di vita, una posizione nel mondo. È un lavoro filosofico, nel senso più originario del termine. Affiancare poi la fotografia all’ambito psicologico trovo che sia un’operazione deleteria per la fotografia. Beninteso, frequento professionalmente psicologi che usano anche la fotografia, come ogni altro linguaggio, dal gioco, alla scrittura, alle performance, al camminare, ecc, ecc, per affrontare una terapia, ma partiamo dalla psicologia per inglobare la fotografia come strumento, all’interno di un sistema che funziona anche e sopratutto per altri meccanismi. Certo, i confini tra le diverse esperienze umane sono labili, non definiti, fluidi, ma talvolta è utile provare a dare un confine al senso delle parole, non foss’altro per non essere presi per i fondelli.
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Cercare di ristabilire un uso circostanziato di certi termini. E’ precisamente ciò che ho tentato di fare scrivendo questo post, partendo dal presupposto che un allargamento indiscriminato del significato delle parole “terapeutico” e “terapia”, in riferimento alla fotografia, possa in realtà creare una confusione che non giova né alla fotografia, né alla psicologia o psicoterapia, perché – al di là delle mode del momento – rischia di banalizzarle entrambe. Il riferimento che fai a Duccio Demetrio lo trovo molto appropriato, e trovo fondamentale anche il sottolineare come l’idea soggiacente e il fine di certe pratiche (e hai giustamente detto che coinvolgono non solo la fotografia, ma ogni forma espressiva) sia quella della rielaborazione del proprio vissuto e – forse ancor più – l’opportunità di modificare il proprio punto di vista e il proprio modo di percepire la vita e il mondo.
In fondo potremmo giungere alla conclusione che, siccome sono più importanti il percorso e l’intento, è davvero difficile dire se questa o quella immagine, questo o quel lavoro fotografico, ricadono in una tale categoria (la terapia) che non è di certo estetica.
Io, comunque, in generale sono possibilista anche se talora scettica.
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Concordo! ed il discorso che facevo era riferito più in generale. Conosco, anche se devo dire sommariamente, il tuo lavoro e mi sembra orientato in ben altra direzione, più biografica ed esperienziale, in grado di lavorare sul sé (questione che appunto non metterei dentro le terapie).
Sull’uso del concetto di terapia in campo fotografico talvolta mi sembra di assistere a operazioni di “marketing del dolore” che per la natura dei temi affrontati sono ottime esche per chiunque di noi, soprattutto in quei momenti dove si sbatte la testa da qualche parte. Perché chiunque di noi lo ha fatto o lo farà. Ma da qui a parlare di terapia ne corre ancora un pò. Personalmente restringo il campo di senso del concetto di terapia a quelle situazioni dove la testa la si inizia a sbatterla tutti i giorni al punto da diventare la tua vita. Ma allora funzionano altri meccanismi, di cui la fotografia può farne parte, certo, ma è il tutto che funziona, se funziona.
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