
Leggendo un post su Binitudini, il blog di Sandro Bini, dal titolo “Late photography”: per una fotografia fuori dal coro, – che a partire dall’attuale trend che, complice lo sviluppo della mobile tecnology, causa una vera inondazione fotografica sul web e intasa i social network dell’ultima versione delle famigerate foto delle vacanze da condividere a tutti i costi con gli amici, parla di un ruolo da outsider che sarebbe destinato a chi “resterà fedele a una fotografia più lenta, scattata con una fotocamera e non con un cellulare o perlomeno non condivisibile e consumabile in diretta (“late photography”)” – ho trovato le riflessioni di Bini molto stimolanti, tanto da fornirmi l’idea di questo commento, che vi si aggancia e dà conto di come gli spunti di quel post hanno lavorato dentro di me.
Senza la minima intenzione di fornirvi verità o profonde intuizioni, mi limiterò ad una riflessione sulle implicazioni di quell’argomento su cui si potrebbe ulteriormente cercare un approfondimento.
A mio modo di vedere, la questione “fast photography vs late photography” cui sembra far riferimento l’articolo, potrebbe essere articolata altrimenti, approfondendone i due aspetti distinti: quello della “condivisione” di immagini personali (che non implica tanto, o implica solo in parte, l’aspetto esibizionistico di chi posta sui social network) e quello dell’approccio professionale, che sarebbe giusto potesse esprimersi secondo una pluralità di stili e intenti, non escluso quello della “fast photography”, che magari a questo punto andrebbe ridefinita e meglio indagata nelle sue potenzialità (al di là del suo aspetto “usa e getta” o magari proprio per quello).
Dietro alla tecnologia… anzi, forse potremmo dire, dietro lo schermo protettivo della tecnologia c’è ancora l’essere umano con i suoi bisogni e le sue resistenze; l’umana voglia di essere approvati, anche a suon di illusori likes, che lasciano il tempo che trovano, e la paura di esporsi senza essere accettati).
Lo stesso si potrebbe dire (fatte le debite trasposizioni del discorso) per ambiti della fotografia diversi dal fotogiornalismo.Se, invece, l’idea di lentezza o, piuttosto, di ritardo – rispetto alla fretta/velocità e in funzione del riflettere, selezionare, operare delle scelte ponderate – diviene una mera scusa per mettersi “fuori dal coro”, sperando che questa posizione dia in qualche modo ragione e forza alle scelte fotografiche solo perché compiute lentamente e individualmente, augurandosi un riconoscimento futuro sol perché “il tempo è galantuomo”…
Beh, allora ho qualche dubbio… e mi vien da riflettere meglio sulla parola “coro”, sulle origini di questo concetto e sul ruolo – che al coro si affidava nella tragedia greca: era l’interlocutore dell’attore. Rappresentava la collettività che con il suo “senso comune” dialogava con i protagonisti delle vicende, dando loro spessore per contrasto. Insomma porsi “in relazione con”, piuttosto che “fuori dal” coro, credo potrebbe anche essere un gran vantaggio.