E’, da ieri ufficialmente, online New Cultframe.
In una più asciutta veste grafica, che conferisce alla rivista un’impronta nuova, visivamente più giornalistica, i lettori ritroveranno il nutrito archivio di articoli e approfondimenti sulla fotografia, il cinema e l’arte contemporanea pubblicati in Cultframe. Ma in più avranno l’opportunità di interagire fra loro e con la redazione attraverso l’inserimento di commenti in calce agli articoli, così come avviene nei blog, per stimolare un proficuo dibattito sugli argomenti proposti.
L’editoriale, che apre questo nuovo corso, non a caso è di quelli che meglio si prestano alla riflessione e allo scambio d’idee. E pone degli interrogativi cruciali.
Ne è pretesto l’assegnazione di un premio Pulitzer a Patrick Farrell, che riporta alla ribalta un argomento – da anni sempre più problematico – di grande rilevanza nel campo della fotografia, sul quale già in passato Maurizio G. De Bonis aveva tentato di attirare l’attenzione : quello del rapporto fra informazione e fotogiornalismo, con tutte le storture del caso. Ne avevamo, a suo tempo, parlato anche qui.
Nell’odierno articolo, alle questioni che vengono poste nell’incipit fa seguito la denuncia di uno stato delle cose che vede imperante nei fotoreporter (trasformati dal sistema in divi) l’esigenza di testimoniare con la loro fotografia nient’altro che il proprio stile (per la verità sempre più omogeneo a quello di chiunque altro) in vista di fama e profitti economici. E vede accantonato ogni tentativo di raccontare quanto più possibile oggettivamente delle storie e delle situazioni in favore della ricerca di un facile senzazionalismo, che specula sulla sofferenza dell’altro; inteso quest’ultimo sempre più come “altro da sé”, distante dal fotografo e da chi sarà il fruitore delle immagini mille miglia, sia geograficamente che emotivamente, ed esibito da questo genere di fotogiornalismo come esponente di un mondo sottosviluppato, quindi esposto senza pietà al nostro sguardo nella sua estrema miseria per divenire oggetto di filistea commiserazione.
Partendo da questi presupposti potremmo, dal canto nostro, aggiungere che forse queste cose che oggi sono una prassi consolidata, a tal punto da sembrare a molti l’unico modo possibile di fare reportage, non sono mai state del tutto estranee ad una certa retorica, attraverso la quale la cosiddetta informazione si è espressa nell’usare la fotografia.
Come aveva segnalato Susan Sontag, nel suo “Davanti al dolore degli altri”: “l’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia”; dacché esiste una precisa iconografia, che da sempre esprime al meglio la sofferenza.
E ancora, uno degli artifici richiesti da quella forma retorica è l’adozione di uno stile antiartistico (frutto di finta o vera improvvisazione), ricco di “sbavature” tecniche che fanno sembrare tutto più flagrante e vero. Niente a che vedere – è vero – con l’autentica testimonianza e con l’informazione!
L’indubbio “sguardo colonialista”, che oggi ha il “ricco fotografo” (ricco perché incidentalmente rappresentante di una società benestante) e la sua innegabile propensione a negare dignità mostrando il volto e il corpo martoriato degli indigenti abitanti di lontani villaggi del terzo mondo o lontani teatri di guerra, altro non sono in fondo – come ricorda sempre Sontag – che “eredità di una prassi secolare di mettere in mostra esseri umani esotici“. Non tanto, probabilmente, un’esibita sperequazione classista (per quanto infine lo diventi) ma piuttosto un autoreferenziale egocentrismo, che fa considerare il diverso da sé “come qualcuno da vedere, e non che (come noi) vede“.
Viene da chiedersi, tuttavia, quanto tutto ciò abbia effettivamente a che fare con le scelte dei fotografi e quanto con quelle di chi diffonde le immagini, ora proponendole come informazione, ora come oggetto d’arte; in un caso o nell’altro come “oggetto da commercializzare” insieme al suo contenuto (e nonostante quello). E quanto abbia addirittura a che vedere con i destinatari finali, gli acquirenti consumatori di questo prodotto fotografico, per le aspettative dei quali fin da principio esso è stato pensato.
Forse riflettere sulla fotografia potrebbe offrire più di uno spunto per rimettere in questione una società, come la nostra, che preferisce guardare tutto da lontano; che indulge in una facile compassione e in altri edificanti sentimenti per sentirsi lontana da ogni responsabilità.
Nella “Società dello spettacolo” anche l’informazione non può essere che spettacolare. I poveri fotografi non possono che adeguarsi al sistema a volte purtroppo in maniera del tutto ignara. Certo è vero c’è chi ci “marcia”, ma quali alternative sono davvero praticabili? Credo che in molti siamo d’accordo con la lettura di Sontag di De Bonis e con le tue lucide precisazioni, ma quali strade è possibile praticare concretamente per una informazione corretta? E qui che tutti noi dovremmo spenderci e sperimentarci, altrimenti il gesto d’accusa rimane fine a se stesso e tragicamente frustrante.
Un caro saluto
Sandro
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Caro Sandro, hai perfettamente ragione. Al di là della denuncia, comunque opportuna visto che – a quanto pare – certe riflessioni continuano ad essere non così scontate per molti, si dovrebbe cominciare a guardare ad una strategia per il futuro.
L’entrare in contatto attraverso i mezzi che il web ci offre, è il primo passo.
La riflessione comune attraverso un rispettoso dibattito (che non vuol dire una sequela di commenti che esprimono un’adesione incondizionata!)è un primo obiettivo. Anche questo non è poi troppo scontato, se fai caso alle schermaglie che ogni volta saltano fuori in queste occasioni con allegati di aride polemiche e più o meno velati insulti.
Il fatto è che viviamo in una società che non è ormai genericamente “dello spettacolo”, ma “della lite che fa spettacolo” in tv; e nel mondo reale “dell’arroccamento in fazioni contrapposte”.
Il dialogo è spesso sostituito da proclami che non prevedono la possibilità di cambiare opinione nemmeno di una virgola. Ci sono delle “parole chiave” che vanno ripetute, che vanno opposte a qualunque tentativo di proporre dei ragionamenti, parole che si ripetono in ogni occasione, pertinenti o meno che siano.
Insomma, il mio parere è, fondamentalmente, che bisognerebbe riflettere sulla società prima che sui fotografi e persino sui “mercanti” (uniamo sotto questa dicitura tanto chi dice di vendere informazione, quanto che dice di vendere arte!): chiedersi fino a che punto siano loro a propinarci qualcosa, a convincerci che è quello che fa per noi; e fino a che punto, invece, non ci offrano proprio ciò che noi vogliamo avere.
Nessuno che sia in commercio – meno che mai in tempi di crisi – proporrebbe qualcosa che non piace ai suoi affezionati clienti!
Il problema è, in effetti, proprio quello che si era posto Sontag: a che servono un certo tipo di immagini? Quali “bisogni” soddisfano e come vengono elaborate? Quale impatto reale possono produrre? Tutto dipende dalla predisposizione del fruitore…
Ma forse il fruitore si può “educare” alla lettura dell’immagine, oltre che instradarlo verso un gusto piuttosto che un altro.
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