
Fino al 26 aprile è in mostra a Roma, nei locali del settecentesco Palazzo Incontro in via dei Prefetti 22, “Exactitudes“, progetto fotografico di Ari Versluis ed Ellie Uyttenbroek.
La mostra, patrocinata dalla Provincia di Roma, presenta nella Capitale il lungo e minuzioso lavoro del duo olandese – l’uno fotografo, l’altro profiler – che è stato già esposto con successo a Parigi, Berlino, Londra, Toronto, Buenos Aires e New York. Un lavoro cominciato, come il loro sodalizio, nell’ottobre del 1994 e durato dieci anni, ispirato dalla multietnicità ed alla multiculturalità di Rotterdam, dove i due vivono.
La mostra è allestita in due ambienti. Al pian terreno si limita a esibire – sia pure in un formato più grande che valorizza le immagini – l’idea di una sorta di “collezione di farfalle” (come l’ha definita Ellie Uittenbroeck; che oltretutto ad uno sguardo superficiale può ricordare uno stile pubblicitario caro ad Oliviero Toscani), mentre al primo piano si esplicita pienamente per quello che è: una minuziosa ricerca, una catalogazione tassonomica precisa di “abiti” mentali, che viene illustrata da una voce registrata la quale spiega una dopo l’altra le immagini della serie.
Sono in tutto 112 pannelli, e riportano ognuno i ritratti, per lo più in “piano americano”, di dodici individui più o meno della stessa età, i quali si propongono guardando dritto alla fotocamera con uguale posa e atteggiamento (il titolo è una contrazione di “exact actitudes”), ma soprattutto indossando abiti simili.
L’ampia e dettagliata classificazione antropologica che ne risulta, ha un rigore quasi scientifico, e questi ritratti/figurine dei più disparati gruppi sociali ripresi in giro per il mondo, potrebbe in qualche modo farci pensare all’opera tassonomica progettata da August Sander. In scala allargata, però: da villaggio globale; e in una versione aggiornata, consapevole dell’indagine semiologica, applicata ai cosiddetti “codici d’abbigliamento” per cui elemento centrale allo scopo di definire l’identità sociale delle centinaia di persone ritratte è qui appunto la foggia dei loro vestiti, che ne fa dei “tipi”.
In questo caso sembra proprio vero: l’abito farebbe il monaco! E tuttavia il risultato è ambiguo: da un lato un’incredibile uniformità (la parola “uniforme” non riguarda forse anche le “divise”?) fra tali soggetti, dall’altro la loro innegabile individualità. Uguali e differenti al tempo stesso; creando una tensione concettuale irrisolvibile che intriga e fa riflettere sulle implicazioni di questo essere “tutti diversi come chiunque altro” (per citare i due autori).
Un messaggio di grande positività in un periodo come questo, per cui il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, presentando la mostra, ha ritenuto appropriato far notare che “nei momenti in cui si afferma l’incertezza e cresce la sfiducia nel futuro c’è sempre una reazione istintiva, insita nell’essere umano, che lo spinge a rifugiarsi tra i cosiddetti simili”, temendo e stigmatizzando il “diverso da sé”, spesso più debole. Non è, del resto, ciò che accadeva anche negli anni in cui August Sander portava avanti la propria ricerca, poi in gran parte distrutta dai Nazisti?

Personalmente non ho molto apprezzato la mostra “Exactitudes” anche se reputo Sander uno dei più importanti ritrattisti nella storia della fotografia. Invece questo lavoro vuole rappresentare la diversità e la molteplicità, ma incasellandola in categorie sociale dedotte e sintetizzare dagli stessi autori. In più ogni soggetto viene messo nella stessa posa su un fondo bianco.
Io sono convinto che un ritratto fotografico sia fatto per la metà dal soggetto fotografato e per l’altra parte dal fotografo. Ma qui ai soggetti sembra sia stato detto: “Quando vieni a farti fotografare vestiti così e così, poi mettiti in questo modo” e… click!
Questa non è fotografia.
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In realtà – è chiaro – se in queste immagini cerchi dei ritratti non puoi che rimanere deluso. Il soggetto in esse non sono gli individui presi a sé per la loro specificità ed umanità, ma dei “tipi”.
Sander, pur avendo l’ambizione di catalogare attraverso classi e mestieri la società del suo tempo in Germania, non poteva sfuggire alla categoria del ritratto, perché diverso era il background dell’epoca: la sua visione del mondo non era influenzata dalla cultura di massa, dalla globalizzazione e dalla pubblicità, come non lo erano i soggetti che posavano per lui.
E’ più che lecito qui il sospetto di una “manipolazione” da parte del fotografo riguardo ai dettagli dell’immagine (abiti e pose), ma questo non è un reportage che “pretende” di ritrarre la realtà. Crea ed usa un sistema di segni che comunicano esattamente ciò che gli autori intendono dire: “siamo tutti diversi, come chiunque altro” malgrado le nostre “maschere sociali”, malgrado gli incasellamenti.
Lo stesso si potrebbe dire della fotografia: ha molte espressioni differenti, malgrado siamo soliti restringerla in generi.
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