
E’ un libro fotografico, pubblicato in Italia dalla PelitiAssociati di Roma e in Francia dalla Editions Actes Sud di Arles, ma è soprattutto una mostra, proposta anch’essa in Francia e in Italia: curata da Gabriel Bauret è in corso fino al 5 aprile a Parigi, presso la Maison Européenne de la Photographie; a Roma, fino al 26 aprile all‘Istituto Nazionale per la Grafica.
E’ “Il Dono”, un progetto di Giorgia Fiorio, frutto del lavoro degli ultimi 9 anni in giro per trenta Paesi nel corso di molte missioni, svolte spesso in condizioni critiche, alla ricerca di una dimensione mistica e religiosa che parrebbe intrinseca all’essere umano al di là delle singole culture e del credo professato. Il dono della Fede dunque, ma anche il dono di queste immagini da parte della fotografa torinese, e ancor di più quello della gente ritratta che si è lasciata catturare dalla pellicola (sono tutti scatti in analogica!) nell’abbandonarsi a celebrazioni e rituali d’ogni sorta.
In cento fotografie di grande formato troviamo così a confronto genti e luoghi molto distanti fra loro. Il comunicato stampa tenta di enumerarle così: “dalle celebrazioni copte-ortodosse del Timkat in Etiopia, ai riti pasquali di purificazione e mortificazione nelle Filippine; dalle celebrazioni e dai pellegrinaggi nelle città sacre in India, alla vita monastica buddista in Tibet e nel Ladakh; dalle pratiche di iniziazione e di meditazione in Myanmar, in Thailandia e in Cambogia, ai rituali animisti in Africa e Oceania; dai dervisci rotanti ai lottatori scintoisti, dai rituali sciamanici a quelli sincretisti, dal Bar-Mitzvà ebraico in Israele, al funerale islamico in Uzbekistan, dall’osservazione dei seminari cattolici in Polonia, a quella delle comunità monastiche ortodosse in Russia”.
Non c’è pretesa di esaurire il vasto ventaglio delle professioni di fede, ma piuttosto traspare quasi sempre una curiosità antropologica, e – come è dichiarato da Fiorio – una voglia di esperire in prima persona l’universale senso di sacralità che trascina questi esseri. Se (e in che misura) ciò possa realmente accadere a un fotografo, il quale non può che esser spettatore lucido per continuare a scattare, a noi non è dato saperlo; quello che, però, appare evidente in queste belle immagini in bianco e nero è la perizia e la capacità di sintesi formale, nella quale i diversi rituali trovano un senso di sospensione davvero fuori dal tempo, che ci evoca appunto il misticismo, o più semplicemente una dimensione metafisica.
La qualità ci sembra a tratti discontinua; ma il bianco e nero (simbolica evidenza di un cosmo fatto di luce e oscurità), così come la grana delle immagini (traduzione visiva di un aggregarsi di materia opaca e di un trasparire della luminosità dello spirito), ci coinvolgono e appaiono sovente come elementi necessari di un discorso, che acquista una valenza poetica: quella che al giorno d’oggi tante volte ci pare cedere sotto il peso della nitidezza e dei colori iperrealisti offerti dai progressi del digitale.
Cliccando sul seguente link potrete leggere alcuni testi di presentazione di Giorgia Fiorio, Daniele Del Giudice, Gabriel Bauret: http://www.grafica.arti.beniculturali.it/Fiorio/testi.htm
Ciao Rosa Maria,
vorrei solo dirti che non vedo la contrapposizione tra la pellicola in bianco e nero e i sensori digitali così come la descrivi tu.
Non vedo nemmeno l’esistenza di una fotografia “analogica” contrapposta ad una “digitale”.
Penso che la pistola che uno sceglie per sparare sia ininfluente sulle intenzioni dello sparatore. L’importante è che il colpo parta e colpisca il bersaglio. Quale sia il bersaglio non lo decide la pistola, ma lo sparatore.
Scusami la metafora, ma stamattina mi sento molto Clint Eastwood 😉
Fuor di metafora, ho visto lavori fatti con fotocamere a sensore e stampati a perfetta imitazione della tanto amata grana della bianconerissima TRI-X, (la pellicola del Vietnam…)
Vedo anche lavori fatti in pellicola (conosco un tale che fotografa di notte i paesaggi urbani…) e stampati in digitale che sembrano molto simili a quelli fatti con il sistema di ingrandimento ottico tradizionale.
Tutto qui.
Un saluto caloroso.
Fulvio
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Ciao Fulvio! Concordo in larga parte con quanto tu affermi e – di fatto – non intendevo affermare l’esistenza di una contrapposizione fra due “fotografie” (analogica e digitale) che – secondo me hai perfettamente ragione – non esistono come entità separate.
Siccome non amo le armi, non dirò che ognuno sceglie la propria pistola e l’importante è arrivare al bersaglio.
Preferendo la pittura, dirò invece che ognuno sceglie il proprio pennello e anzi lo sceglie in funzione del fatto che voglia eseguire il proprio dipinto ad olio, a tempera, ad acrilico o ad acquerello. Quindi, ancor prima del pennello, sceglie la tecnica che più si confà a lui e alla resa delle sue intenzioni.
Come dire: ogni tecnica ha un suo effetto specifico, né migliore né peggiore di quello di un’altra, soltanto diverso.
Non c’è dubbio che esistano dei “virtuosi” capaci di far sembrare un acrilico tale e quale ad un olio, o qualsiasi di queste tecniche simile ad un’altra. Ma perché non usare ogni tecnica secondo la propria natura?
Tornando al tuo esempio ci si potrebbe chiedere: perché usare la 44 magnum dell’ispettore Callaghan (restiamo ad Eastwood ;-)!) per andare a caccia di beccacce?
Insomma non si tratta di rendere due tecniche,l’analogica e la digitale, l’una il più simile possibile all’altra (magari imitando la grana), si tratterebbe piuttosto di usare il mezzo che “per sua natura” più si adatta ad un certo messaggio, visto che oggi abbiamo l’opzione di scegliere.
Quel che intendevo dire era appunto che in quel lavoro della Fiorio mi pareva di cogliere una coerenza linguistica, anzi addirittura simbolica, fra messaggio e mezzi scelti per esprimerlo.
Quanto ai mezzi fotografici digitali, che io apprezzo nelle loro potenzialità e in molte delle loro manifestazioni tanto quanto quelli analogici, ho l’impressione che oggi riescano ad offrire effetti iperrealistici (amatissimi da molti) che cozzano abbastanza con una certa “poeticità” propria di immagini più sintetiche ed “aperte” all’interpretazione del nostro sguardo.
Grazie per avermi dato la possibilità di disambiguare.
Ricambio il saluto 🙂
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È sempre un piacere scambiare pensieri con te Rosa Maria.
Comprendo ora bene il tuo punto di vista.
Alla domanda rivolta all’Ispettore Callaghan, penso che Clint ti risponderebbe che lo sparo della 44 è troppo divertente per rinunciarvi, poco importa se a rimetterci le penne è una beccaccia che poteva anche essere colpita con un fuciletto ad aria compressa 🙂
In ultimo, un motivo più serio, almeno spero. Usare un processo informatico ti consente di decidere la “finitura” del lavoro dopo la ripresa. Intanto ti porti a casa tutti i colori, poi si vedrà se rinunciarvi del tutto, o in parte, aggiungere o meno grana, rendere la fotografia più sintetica o più iperrealistica ecc. ecc.
Nell’ambito della tecnica fotografica questo è un indubbio passo avanti. Fatta salva, e qui concordo in pieno, la “coerenza simbolica” (per usare la pellicola oggi, ed io la uso, ci vuole davvero molta “fede”).
Ciao e a presto! 🙂
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Buonasera Maria Rosa
Mi permetto di intervenire sul commento di Fulvio e sulla tua replica, tutte e due molto interessanti. Concordo con te sulla non neutralità del medium, che si fa portatore di tutta una struttura dell’immagine e quindi di una ideologia che ne sta a monte, sia, parzialmente, con il “risultatismo” di Fulvio e la sua metafora pistolettara che si concentra più sul fine che sul mezzo scelto. Per rimanere in chiave di metafora la scelta della stoffa mi pare però possa fare la differenza nel confezionare un vestito, il tutto ovviamente secondo una necessitata scelta autoriale. Resta però da stabilire se e per quale motivo l’analogico deve o dovrebbe essere piu “poetico” del digitale, salvo il fatto possa risultare piu congeniale ad un progetto fotografico come quello della Giorgia Fiorio. E mi piacerebbe un vostro commento a riguardo. Invito puoi a riflettere se oggi come oggi sia più realista (in senso culturale) una immagine digitale low fi (piena di rumore) o una accuratissima e ipernitida stampa lambda o fine art, e sulle molteplici potenzialità (non solo tecniche, ma direi concettuali) di ibridare l’analogico col digitale, di cui ho parzialmente discusso in un mio recente post su “Binitudini” dal titolo “Nostalgia dell’analogico e nuove forme di ibridazione tecnica e concettuale” http://binitudini.blogspot.com/2009/03/nostalgia-dellanalogico-e-nuove-forme.html.
Un caro saluto
Sandro
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Ehilà Sandro! Siamo sempre noi tre o quattro gatti (inclusi il Sandro Iovine di Milano, i ragazzi di Hippolyte, De Bonis e pochi altri) a tener desta la discussione in rete sui destini culturali magnifici e progressivi della fotografia che definirei “d’intenzione”, giusto per evitare categorie più vuote (artistica, d’autore, ecc.).
Mi piacerebbe veniste tutti a Torino per parlarne insieme. Se riesco a raccogliere un pubblico e a coprire almeno qualche spesa, ti/vi andrebbe?
Passando alla questione della poeticità, e del fine che giustifica i mezzi, per mio conto l’importante è che il lavoro compiuto sia governato da una intima coerenza, direi cristallina. Faccio l’esempio del film “Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain” (oggi mi sento “cinofilo”…) nel quale la fotografia è tutta sommersa da una dominante giallastra. Lì, funziona. Musiche, sceneggiatura e scelte visive costruiscono un insieme coerente e inseparabile.
Il resto è sperimentazione 😉
Saluto te a tutti i 4 amici del Bar Daguerre 😀
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Ciao Sandro. Innanzi tutto grazie per il tuo commento.
Di nuovo devo precisare: il mio non era un discorso generale, ma relativo alle fotografie della mostra di cui parlo.
In linea di principio, infatti, mi parrebbe assurdo affermare che “l’analogico deve o dovrebbe essere piu “poetico” del digitale”.
Dal momento che è semplicemente uno strumento e – come ci assicura Fulvio, che ha certo più esperienza di me in merito – di estrema duttilità, la fotografia digitale nelle mani giuste (quelle che sanno assecondare un’intenzione poetica) non può essere in tal senso inferiore a quella analogica.
E’ sicuramente interessante interrogarsi sugli eventuali paradossi del realismo con l’avvento delle nuove tecnologie, che si aggiungono alla paradossale idea di “realismo” in fotografia…
Mi chiedo, però, quale sia l’impatto reale del digitale su una fotografia, che spesso ripropone stancamente gli stessi modelli (è vero che il digitale sarebbe duttilissmo, ma non è vero forse anche che spesso i prodotti del digitale sono poco discontinui rispetto al passato?).
Quanto è diffuso il tentativo di usare il digitale in maniera originale, confezionando un abito adatto alle nuove caratteristiche di questa nuova stoffa?
Non si continua per caso ad usare un nuovo meraviglioso tessuto per confezionare abiti che rappresentano continui revival dei decenni passati, magari solo un po’ più colorati e vivaci?
La possibilità poi di confezionare facilmente vestiti con questa stoffa fa sentire una gran quantità di persone dei Roberto Capucci, pur essendo privi di originalità, anzi pur non sfiorandoli minimamente quest’idea.
Passando dalla metafora al concreto, tutte queste persone, non appartenendo a quelli che Fulvio chiama i fotografi “d’intenzione”, si dedicano con indubbia passione e a volte con profitto alla fotografia, riempiendo delle loro immagini ogni dove, complice la rete. Subendo e al tempo stesso accreditando un gusto fotografico.
Quanto grande è oggi l’impatto del digitale sulla fotografia?
Dal punto di vista sociologico sicuramente enorme…
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Organizza Fulvio! L’idea mi piace… a prescindere dal fatto che io possa assicurare la mia presenza. 😉
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Buongiorno Rosa Maria
Grazie mille della tua risposta. Concordo in pieno con quello che dici. Purtroppo in fotografia (anche quella digitale ovviamente) ci sono le “mode” e abbastanza spesso l’originalità e la sperimentazione anche nei “render” latita. Vanno di moda un paio di idee e vai tutti a seguirle come pecore, spesso senza nemmeno nessuna coerenza progettuale. Per fare un esempio io al nostro Corso di Photoshop con Deaphoto mi limito coscientemente solo a spiegare come funzionano i vari strumenti di fotoritocco, insomma a cosa servono, e dico sempre “poi quello che ci potete fare sono fatti vostri, l’importante è capire come funzionano…”, ma mi rendo poi conto invece che molti rimangono delusi perche vorrebbero sapere o meglio “ricopiare” certi miei determinati editing o quelli di altri fotografi, i miei del resto sono il segreto di pulcinella e non ho quindi particolari problemi a “rivelare”, ma quello che cerco di fare è sopratutto invitare i miei studenti a trovare da se la loro strada e non a dare loro la pappa già scodellata anche se molti aihmè la preferirebbero (ma questo è un problema generale sia sociale che culturale, largo ai programmi che non fanno pensare….).
Rispondendo poi a Fulvio dico “meglio pochi ma buoni!”… Ma a parte gli scherzi, do ovviamamente con entusiasmo la mia disponibilità a partecipare al “Summit” (se organizzi nel fine settimana non dovrei avere grossi problemi a liberarmi….)
Un buon wkd e un abbraccio virtuale ad entrambi!
Sandro
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ANALOGICO DIGITALE TRADIZIONE E NUMERI
DIGITALE E’ COME UNO SHAMPOO SENZA SCHIUMA
METTE ADDOSSO UNA SENZAZIONE DI GELO
ETERNAMENTE CHIUSO IN SE
DA MOLTE DUBITAZIONI SULLA FORMA E SOSTANZA
E LA DEFORMITA’ DELLA STAMPA LUMACA L’APPROFODIMENTO
INGANNOSO TACE MA AVVOLGE CON QUELLA PATINA
CHE SA DI RIMORCHIARE LO SGUARDO
SI ASPETTA UN GLAMOUR MIRABILE D’EVENTI
COSI FINISCE QUELL’ASMA DI CAPIRE OLTRE L’APPARENZA
CUSTODENDO L’EPILLESIA CULTURALE
ANGELO PINI
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Siamo tra la poesia d’avanguardia e gli effetti nefasti dei traduttori web. Tradotto in italiano “standard”, mi pare di capire che il nostro Carlo Emilio Gadda attribuisca al digitale una serie di caratteri (shampoo senza schiuma; sensazione di gelo; stampa lumaca; rimorchiare lo sguardo, glamour mirabile d’eventi) che in realtà già si manifestavano nella tradizionale fotografia pubblicitaria su pellicola.
Quanto all’asma di capire (che mi pare una bella antinomia rispetto alla virtuosa “ansia di capire”) e all’epilessia culturale, mi paiono appartenere, semmai, ai fotografi e non hai sensori.
In altri termini, ribadisco che, a mio parere, tra via chimica e via elettronica ci sono solo differenze tecnologiche perché fino a quando la luce passerà attraverso un vetro o un foro, e verrà registrata senza soluzione di continuità durante l’esposizione, siamo sempre di fronte allo stesso fenomeno fisico, concettuale e culturale che si rivelò nel 1839, preceduto da secoli di osservazione attraverso le camere obscure dei pittori.
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