
Un’esperienza vissuta “in prima persona” è l’origine di questo scritto, quella di cui parla Maurizio De Bonis su Cultframe in “Storia di un esperimento”.
Tenterò di parlare di tale “esperimento” – dal quale molti spunti ed interrogativi sono emersi sul fare fotografia, non meno che sul trattarla come oggetto di studio e approfondimento critico -, narrandolo dal mio punto di vista, forse ancor più soggettivo di quello di De Bonis, un po’ per ribattere alle sue perplessità, un po’ sperando di fornire qualche altro elemento a chi fosse interessato o incuriosito.
Per cominciare vorrei fare delle premesse, spiegare cosa mi ha portato a partecipare e come mi sono presentata a questo appuntamento con la fotografia, propostomi qualche mese fa.
Divisa come mi sento fra la consuetudine a riflettere sulle immagini – qui e altrove coltivata – e un’antica e non sopita vocazione alla prassi fotografica, mi ero fin dall’inizio chiesta se dovessi presentarmi a questo incontro nella veste di fotografa o di studiosa della fotografia, dal momento che il progetto parlava di un “ritiro di aggiornamento, confronto e studio tra pari” pensato per “rompere questa cappa di isolamento culturale nella quale sono imprigionati fotografi e critici”.
A quale categoria fra queste mi sarei dovuta sentire di appartenere in quest‘occasione?

L’incertezza riguardo al ruolo che avrei potuto rivestire derivava dal fatto che a lungo ho creduto di aver accantonato il fare fotografia, anche se continuavo a “scattare foto” quando mi sentivo spinta a farlo, senza una chiara intenzione e quasi per un riflesso condizionato, seguendo un istinto laddove la ragione si rifiutava di concedersi alla fotografia, per motivi che ora sarebbe troppo complesso spiegare.
Il primo impulso è, quindi, stato quello di tirarmi indietro, di non partecipare; perché in cuor mio il ruolo di fotografa era quello che mi premeva, anche se non mi sentivo più in diritto di ricoprirlo.
Infine però ho accettato, cedendo alla grande tentazione di un confronto diretto con chi la fotografia la faceva davvero e in tutta consapevolezza, come Samuele Bianchi, Alfredo Covino, Pietro D’Agostino, Antonella Monzoni, Claudia Romiti; ma anche con chi la capiva davvero come Orith Youdovich (che unisce alle doti di fotografa quelle di curatrice), e lo stesso De Bonis.

Come si può ben immaginare, in me albergava pure – più o meno consapevolmente – una speranza: avere conferma e rassicurazione riguardo al mio attuale incerto status di fotografa.
Avendo accettato di prender parte all’esperimento di Maurizio e credendo in cuor mio opportuno parteciparvi da fotografa, si apriva allora una nuova questione: quali immagini avrei portato con me?
Quelle della “fotografa” priva di dubbi, che mi sentivo un tempo, o quelle della semplice “osservatrice esterna” – che mi sentivo ora – pronta a prendere in mano la fotocamera sotto la spinta di impulsi piuttosto inconsci, sempre incerta tuttavia sull‘opportunità di chiamare fotografia il prodotto di tale azione?
Dopo lunghe riflessioni ho deciso che avrei portato solo poche delle immagini dei reportage che facevo un tempo, in quanto rappresentative di un percorso culminato in un lavoro sull’ultimo periodo di vita di mio padre e sulla nostra casa (concluso il quale m‘era parso di non poter più dire nulla di mio attraverso la fotografia). Di questo lavoro avrei portato buona parte delle stampe che avevo esposto in una mostra; significava troppo per me: la fine di un percorso o quantomeno della capacità di esprimermi con un certo linguaggio.

Solo a questo punto è stato per me veramente chiaro che ciò che mi interessava era proprio capire se riuscivo ancora o meno a dire qualcosa “fotograficamente“ anche con quelle immagini più recenti che avevo scattato seguendo una spinta interiore irrazionale, e che avevo accumulato senza neanche considerarle, contando in quel momento più l’atto (del guardare attraverso la macchina e scattare), che i risultati.
E’ vero, non le avevo pensate come “fotografia“, ma solo come un “continuare a fotografare” contro ogni tentazione di smettere.
Ma se la fotografia è fatta soprattutto dal particolare sguardo del fotografo, può quest’attitudine svanire di colpo nel nulla? E se la fotografia è fatta di codici visivi, attraverso i quali può comunicare, una volta che da tali codici uno si allontani inavvertitamente – col credere di non essere più fotografo -, quanto e cosa può arrivare di un’immagine? Ma si può davvero sfuggire alle strutture mentali che si creano “parlando un linguaggio” per anni?
Con questi dubbi e questi interrogativi sono partita il 10 Ottobre per Prato, all’avventura, portando con me anche una vasta selezione di quelle immagini più recenti; andando incontro a persone che (ad eccezione di Maurizio De Bonis e Orith Youdovich, i quali da anni sono miei amici) non conoscevo personalmente, e perfino come fotografi conoscevo molto poco, poiché mi ero guardata dal cercare informazioni che avrebbero potuto ingombrarmi di pre-giudizi. Del resto, per la fiducia che nutro in Maurizio ero certa di incontrare gente sensibile e preparata, e sotto questo aspetto non sono assolutamente rimasta delusa.

E’ stata una vera e propria full immersion nel mondo delle immagini, interessante senza dubbio, a partire dall’introduzione di De Bonis, nella quale si affrontavano criticamente il reportage (argomento al quale inel corso di passati dibattiti l’abbiamo visto appassionarsi), la visione dell’altrui dolore in fotografia, oltre ad alcuni approcci fotografici fuori dal coro. Attraverso questi spunti ci si invitava a mettere in moto un “lavorio” mentale, il quale ci avrebbe accompagnati in quei giorni e – auspicabilmente – seguiti anche dopo la conclusione di quest’esperienza, per innescare quel tipo di proficuo processo creativo che scaturisce solo da un moltiplicarsi di dubbi e domande, e che non si acquieta mai nelle risposte scontate e preconfezionate dall’establishment dell’arte.
Nel corso del fine settimana, la visione dei lavori di ognuno, giorno dopo giorno, è stata intervallata da proiezioni e discussioni, nelle quali quasi inevitabilmente De Bonis è stato non tanto un punto di riferimento quanto una guida sicura. Tentazioni didattiche? Ruoli precostituiti? Chissà!
E’ sicuramente difficile uscire dal proprio ruolo per chiunque; lo è ancor di più quando chi ti sta intorno quel ruolo te lo richiede, pur inconsciamente. E i nostri “personaggi” di fotografi (visto che Maurizio nel suo racconto a ruoli e personaggi accenna) erano senza dubbio pirandellianamente “in cerca di autore”.

D’altro canto, nel secondo e centrale giorno del nostro ritiro, mi è parso, tirasse addirittura aria da “terapia di gruppo“ ed è per questo forse che De Bonis avrebbe apprezzato se ci fossimo abbandonati in maniera “catartica“ al nostro “lavorio“, mentre si è invece trovato – nella migliore tradizione psicoterapeutica – di fronte alle “resistenze”, manifestatesi come paure, indecisioni e clamorose distrazioni.
Forse anche è inevitabile laddove delle persone sensibili accettano d’incontrarsi non prive di “maschere”, ma prive di “armature” difensive, per meglio accogliere uno scambio di idee e soprattutto di sensazioni e sentimenti, essendo questi per un artista buone premesse sulle quali formulare e riformulare successivamente dei concetti razionali.
Con varie sfumature ognuno aveva chiaro – credo – che di questo incontro il cardine dovesse essere la libertà di esprimere il proprio modo di essere, e i tentativi di operare al di fuori dai parametri che, sappiamo, costringono il mondo della fotografia ad una statica ripetitività di stilemi e perfino di argomenti.
Riflettere sulle proprie fotografie, a questo punto, diventava imprescindibile rispetto al riflettere sulla fotografia, ruolo che pareva attagliarsi di più a Maurizio De Bonis, unico fra noi a non essere fotografo.
Comprendo pienamente il suo desiderio di uno scambio più profondo anche a livello puramente intellettuale, come la sua delusione riguardo all‘inguaribile autoreferenzialità dei fotografi , ma credo che parlare della propria fotografia fosse per ognuno di noi il modo più autentico per parlare in quella sede di “Fotografia”, motivo per cui – a mio parere – è risultato anche piuttosto faticoso fare comparazioni con arti, certamente sorelle come il cinema e il video, ma che non rientravano (tranne che nel caso di Pietro D’Agostino e molto parzialmente di Samuele Bianchi) nell’ambito della nostra esperienza vissuta di produttori di immagini.

Al di là di ogni aspettativa delusa – la mia per esempio è stata quella di non aver ottenuto indicazioni, ma non “sulla direzione da seguire” quanto sulla riconoscibilità di un percorso già in atto; per cui sono rimasta esattamente cogli stessi dubbi anziché conquistarne di nuovi – l’esperimento mi pare possa dirsi perfettamente riuscito, anche e proprio con tutte quelle pecche che riguardano l’espressione dell’umanità di ogni partecipante, proprio perché – quale che sia la sensazione di De Bonis – ognuno ha fatto del proprio meglio per abbandonarsi al “lavorio” auspicato e ognuno l’ha fatto secondo il proprio modo di essere.
Se Maurizio può chiamarci, infine, compagni di viaggio è perché questo cosiddetto esperimento non è stato altro che un viaggio esperienziale nella fotografia e dentro di noi. E tutti noi abbiamo accettato di farlo – credo – perché sentiamo in prima persona e percepiamo sempre più diffusa l’esigenza di scambi autentici di idee per superare l’impasse cui spesso ci costringe l’immobilismo della cultura e il conservatorismo dei suoi potentati, non meno delle varie logiche di mercato.
L’esperienza di Prato è stata analizzata da Rosa Maria con giusto puntiglio. Ci tengo solo a chiarire che le mie riflessioni sulle “pecche” dell’incontro non alludevano a un insuccesso. Per deformazione professionale sono portato a essere iper critico, anche nei miei confronti. Quello di Prato è stato, come sempre ci siamo detti, un esperimento.
Forse nel mio articolo su Cultframe non l’ho detto così chiaramente ma il fatto che sette fotografi e un critico si siano riuniti in un luogo tranquillo e isolato a studiare fotografia, e non a sbrodolarsi come in genere si fa, lo ritengo un atto rivoluzionario e quasi miracoloso; un atto lontano mille miglia dalle inaugurazioni rutilanti romane (a cui io stesso partecipo) dove non si vedono immagini ma si fanno molte /false pubbliche relazioni e si dicono castronerie inenarrabili. Questo è difficile da far capire al nostro mondo.
Ribadisco poi il fatto che un fotografo non può sentirsi distante dal video e dal cinema, anche se non si praticano queste discipline. Questo è uno dei punti su cui lavorare, con umilità e apertura mentale. Infine, non era certo una terapia di gruppo quella che volevo mettere in pratica. Ci sono già troppi dottori dell’anima e della mente. Semplicemente invece volevo creare un gruppo di lavoro che si confrontasse concretamente sul fare/studiare fotografia, lasciando da parte vittimismi e sterili onanismi intellettuali. Che questo incontro sia stato terapeutico (o al contrario dannoso) per qualcuno sinceramente non mi riguarda. Quello che volevo fare insieme ai miei amici/interlocutaori era solo lavorare, lavorare, lavorare seriamente, e ancora lavorare senza pregiudizi e barriere. E in parte ci siamo riusciti.
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Grazie Maurizio per essere qui intervenuto a precisare la tua posizione.
Sono sicuramente d’accordo con te riguardo al fatto che si possa parlare di un evento davvero speciale e inusuale nel panorama di un mondo spesso fondato sull’egotismo, poco incline a confronti con visioni differenti, ancor meno a considerare una varietà che spezzi la monotonia delle proposte attuali.
Rispetto il tuo punto di vista secondo il quale “un fotografo non può sentirsi distante dal video e dal cinema, anche se non si praticano queste discipline”. Quello che intendevo dire è che in quella situazione, secondo me, ci siamo posti con una sincerità (personalmente ho tenuto ad essere la me stessa fotografa tralasciando aspetti più intellettualistici!) che comprendeva la percezione e l’espressione di quel senso di distanza. Non ho detto che sia un bene sentirsi “al momento” estranei o poco addentro ai meccanismi del cinema o del video, che hanno oggettivamente delle peculiarità diverse da quelli della fotografia, non fosse altro che perché introducono la dimensione del movimento e della simultaneità.
Personalmente li trovo dei linguaggi molto interessanti, dei quali ammetto di conoscere molto poco per sentirmi libera di fare dei seri raffronti con la fotografia.
E dal momento che concludi il tuo commento accennando alla necessità – da te espressa e che hai cercato di trasmetterci – di lavorare, lavorare, e – meglio ancora – innescare un lavorio intellettuale… beh, ti assicuro che farò del mio meglio per non sprecare l’opportunità che ci hai dato! 🙂
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Ai compagni di quest’avventura (dei quali forse avrei dovuto dire di più, ma sicuramente non mancheranno migliori occasioni per farlo), vorrei manifestare qui la mia riconoscenza per quanto mi hanno dato in termini di input artistici, ma ancor più dal punto di vista umano.
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Gentilissima Rosa Maria
Il viaggio che avete intrapereso è sicuramente ricco di spunti interessanti, molti dei quali condividiamo. Se ci invitate ci farebbe molto piacere partecipare per dare il nostro piccolo contributo.
Un caro saluto
Sandro Bini
Direttore Associazione Culturale Deaphoto
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Caro Sandro,
vedrò d’inoltrare la sua richiesta…
Cordiali saluti.
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