Giovani talenti emergenti sono riuniti insieme a già celebrati artisti della fotografia internazionale in una collettiva pensata per illustrare “l’idea di transitorietà come condizione per lo più invisibile, eppure perennemente presente, dell’abitare umano”.

Copyright: Gabriele Basilico

La mostra, curata da Daniele De Luigi, s’intitola “Somewhen”, e si svolge a Venezia in concomitanza con la Biennale di Architettura presso la Jarach Gallery (S. Marco 1997, Campo San Fantin, 30124 Venezia, di fronte al Teatro La Fenice).

Espongono Gabriele Basilico, Primoz Bizjak, Andrea Botto, Edward Burtynsky, Martina Della Valle, Guido Guidi, Teodoro Lupo, Jürgen Nefzger, Robert Polidori, Jöel Tettamanti.

Autori molto diversi fra loro, i quali affrontano attraverso i loro stili personali la transitorietà dei spazi edificati e di ogni manufatto umano, in fondo l’impermanenza dell’uomo stesso. Di contro alla “pretesa”, insita nel fare architettonico, che tutto possa durare eterno in uno stato di utopica immutabilità, cui naturalmente si oppone la realtà di un Tempo, “grande scultore” (secondo la definizione di Marguerite Yourcenar”), il quale tutto rimodella con il suo semplice trascorrere non meno che con eventi di natura eccezionale, quali guerre e catastrofi naturali.Così Basilico ci mostra gli effetti della guerra su di una desolata e offesa Beirut, e Polidori ci porta ad exemplum la New Orleans devastata da Katrina.

Robert Polidori
Copyright: Robert Polidori

Il germe della mutabilità è però insito, come si è detto, nella temporalità di questo mondo, e ce lo lasciano intuire autori come Tettamanti e Nefzger, in immagini di luoghi dall’apparenza lieve e pacifica, i quali nascondono dietro quella facciata gravi minacce climatiche ed ecologiche; ma ce lo additano pure Martina Della Valle, attraverso una sorta di sospensione temporale determinata dalla giustapposizione di realtà storiche differenti, Primoz Bizjak e Teodoro Lupo attraverso l’atemporalità percepita in luoghi abbandonati più o meno vistosamente corrosi dall’incuria. Nelle opere di Andrea Botto il riflesso del cambiamento si coglie nell’impotenza degli abitanti della Pianura Padana, ridotti a spettatori, verso i mutamenti irreversibili che l’edificazione d’una grande opera apporterà al loro paesaggio.

Guidi e Burtynsky mettono in scena, invece, da una parte la finta indifferenza celata da rigore formale (che nelle immagini del primo la perfezzione non riesce a “sterilizzare” i luoghi dalle tracce umane!), dall’altra un improbabile sapore epico: la grande diga voluta dal governo cinese sul fiume Yangtze in sacrificio al progresso non può mettere in ombra la tragedia umana degli insediamenti umani – da lui “immortalati” – e di un’economia antica di colpo cancellati.

La temporaneità di ogni cosa spicca ancor di più se si pensa al fatto che le immagini fotografiche, con il loro essere concettualmente ed indissolubilmente legate al luogo e al tempo preciso in cui hanno impressionato la pellicola ovvero il sensore digitale, sono l’emblema di un attimo fuggente, che fittiziamente vogliamo rubare al divenire delle cose. Cose, che tutte – senza eccezione – in qualche punto nella linea del tempo (somewhen!) muteranno e decadranno.