Giovane artista slovacca poco più che trentenne, Lucia Nimcova ha già ottenuto diversi prestigiosi premi internazionali per i suoi lavori, dove la fotografia di documentazione s’intreccia ad un concettualismo nutrito d’ideologia. Nell’ambito del Festival Internazionale FotoGrafia di Roma, fino al 25 maggio è in mostra al Palazzo delle EsposizioniUnofficial”, progetto da lei realizzato vincendo lo scorso anno il primo Premio Baume & Mercier, che aveva come tema “una storia del mio mondo”.

Dopo essersi precedentemente concentrata sulla condizione femminile nei Paesi del Centro e dell’Est Europeo, Nimcova si sofferma qui sul proprio Paese d‘origine, raccontandone la realtà sociale, quale è stata tramandata dalla gran quantità di materiale fotografico presente negli archivi pubblici e privati amatoriali della propria città, Humenne.

La “storia del suo mondo” che essa ci propone è quella di una normalità quotidiana che fa i conti con la “normalizzazione sovietica”. Da questa particolarissima indagine sociologica, dai forti connotati politici, emerge una critica stringente a un sistema in cui ovunque, oltre la facciata, traspare tuttora un’eredità di sudditanza ai meccanismi mentali promossi dal comunismo, a distanza di quasi un ventennio dalla caduta del Muro di Berlino.

Il linguaggio scelto dall’artista è quello spartano, tipico di una tradizione sovietica, dove all’immagine fotografica molto poco è concesso in termini di estro creativo. Persone ed eventi sono presentati con una scoraggiante semplicità, tutta studiata a rendere l’immagine chiara nella sua evidenza, immediatamente fruibile nei valori ideologici propagandati.

La “normalizzazione”, in quanto contromisura sovietica dopo i fatti della Primavera di Praga, era – ha scritto Nimcova – come “una terapia, come una cura per i sintomi della libertà e della democrazia. Totalitaria nella natura, il consenso nazionale era implementato attraverso campagne motivazionali politiche e domestiche“. Una sorta di lavaggio del cervello ideologico, di cui ha risentito tutta una generazione, i cui sforzi erano diretti solo all’essere “normali”.

Fra documento e finzione, l’artista presenta insieme ad immagini d’archivio altre scattate per l’occasione, praticamente indistinguibili da quelle di repertorio, in quanto ne citano tutti i consolidati luoghi comuni – dall’inquadratura, alle luci piatte, ai contenuti – per restituirci la sciatta monotonia ortodossa voluta dal regime sovietico per propagandare un finto consenso di facciata.

Tale passato diventa per Nimcova fondamentale strumento di comprensione di un’attualità – a suo dire – niente affatto discontinua, e tuttora avviluppata nei meccanismi mentali di convenienza sociale ereditati dal comunismo. Cosicché la “normalità” di oggi, quella che aggancia quel Paese al carro “progressista” dell’Occidente, non è altro che una mutazione della “normalizzazione” di ieri, dove ognuno subisce acriticamente e con indifferenza ogni mutamento storico, impostogli in fondo sempre dall’alto.