Una retrospettiva, divisa in due diverse sedi, ripercorre attualmente a Modena l’opera di un artista che ha fatto della fotografia il suo mezzo d’indagine prediletto.
Il titolo di questa esposizione è “Franco Vaccari. Opere 1955/1975“ ed è proposta come un viaggio creativo oltre quella visione ingenua (ancora condivisa da molti), la quale ha creduto che “ la realtà fosse trasparente allo sguardo e si potesse cogliere il senso delle cose attraverso esso”, proprio con la fotografia.
E’ un itinerario che inizia idealmente presso la Palazzina dei Giardini e prosegue presso il Fotomuseo Giuseppe Panini.
Posta all’ingresso della Palazzina dei Giardini, un’opera introduce subito lo spettatore ad un percorso mentale del tutto insolito, quello sempre sotteso alle indagini di Franco Vaccari, che immagina per il visitatore un ruolo diverso da quello di semplice spettatore.
“C’ero anch’io 2007” è, infatti, una delle sue cosiddette “esposizioni in tempo reale” – la numero 37 per la precisione – seguite alla prima, che tanto scalpore destò durante la Biennale di Venezia del 1972.
L’installazione è costituita da una semplice photomatic (per intenderci la macchinetta delle fototessere), che scatta a chiunque si presti una striscia di foto, completa di dati come luogo, data e occasione, i quali “contestualizzano lo scatto e certificano un momento di esistenza.” poiché secondo l’artista “la fotografia può essere vista come una forma di protesi che viene in soccorso della memoria proprio quando il senso dell’io nel tempo della globalizzazione tende a perdere di consistenza”.
Nella stessa sede è presentato anche “Radici”, un corpus d’immagini inedite realizzate fra il ‘55 e il ‘65, rilette e ricontestualizzate, attraverso l’allestimento espositivo, all’interno della successiva tematica di ricerca dell’autore. E’ una ricerca sugli automatismi fotografici, esistente in nuce nei suoi primi scatti, quella che troverà un’espressione cosciente e coerente in opere successive. Fra le altre qui esposta: “La città vista a livello di cane”, serie fotografica dove è messa in questione la consueta inquadratura ad altezza d’occhio umano, sostituita da una posta a 50 cm dal suolo.
L’intera opera di Vaccari presto rivela come tali automatismi siano a tal punto insiti al mezzo fotografico, da impedire al fotografo di dominarlo realmente: è “… sbagliato pensare che la tecnica sia neutrale… la tecnologia ha una sua autonomia che funziona quasi a nostra insaputa, condizionando e cortocircuitando, spesso completamente, la nostra coscienza e la nostra volontà”.
La fotografia non è affatto strumento fedele di riproduzione della realtà, eppure si rivela implacabile nella registrazione di elementi che sfuggono all’immediata percezione dello sguardo.
Nella sede del Fotomuseo Giuseppe Panini troviamo ancora opere inedite come “Isola di Wight” del 1970, reportage allora totalmente innovativo, perché imperniato sulla “capacità del mezzo fotografico di registrare le dinamiche dei comportamenti piuttosto che i condizionamenti dell’autore”, in quanto offre dell’accampamento del pubblico, accorso al celebre concerto-evento, un’immagine totalmente improntata alla casualità, dal momento che – scrive Vaccari – “mi resi conto di appartenere ad una cultura estranea a quella dell’evento a cui stavo partecipando. Quindi per liberarmi dai miei condizionamenti mentali decisi di aggirarli mettendo in atto un automatismo: quello di scattare una foto a destra e una a sinistra ogni cento metri”.
Largamente inedite sono pure opere che raccontano i viaggi minimi di Franco Vaccari, come “Viaggio+Rito“, la “esposizione in tempo reale” numero 2.
Le due mostre offrono così un itinerario a partire dalle immagini degli anni Cinquanta, influenzate dai reportage di Capa e di Cartier-Bresson, ma anche dalla fotografia dei surrealisti, echi della quale sopravvivono negli anni successivi grazie alla fondamentale impronta data alle varie opere dall’introduzione di quegli elementi di casualità tanto cari al Surrealismo.
Da quelle prime immagini di Vaccari, al passaggio alle sue istanze neoavanguardistiche – presaghe dell’arte relazionale -, fino all’attuale teorizzazione di un “inconscio tecnologico”, scopriamo con meraviglia che il passo è breve.