Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, oltre alla collezione permanente, in questi giorni grazie alla settimana dei Beni Culturali, potrete visitare gratuitamente anche le tre mostre fotografiche ospitate dalla struttura, facenti parte della rassegna romana FotoGrafia.

Fra queste l’installazione di Alex Majoli – allestita in collaborazione con Alessandro Sala, Arianna Arcara e Daria Birang – trae rispetto alle altre ancor più forza e senso dalla collocazione all’interno degli spazi tinti di nero che ospitano le opere dei tre giovani artisti.

Libera me” nasce, come riflessione a posteriori, dal lavoro di un fotoreporter che dal 2001 fa parte, secondo membro italiano dopo Ferdinando Scianna, della pretigiosa agenzia Magnum; e prende ispirazione per il suo titolo dalle Messe di Requiem, in particolare da quelle alle quali compositori come Verdi hanno aggiunto una parte con quel nome, dedicata al pio ufficio della sepoltura.

Alex MajoliL’opera è costituita da tre “gironi”, dalla vita alle spoglie fino ad un oltre.

Sulle cupe pareti immagini in bianco e nero di volti che, isolati dalla stampa, emergono dall’ombra più profonda come persone (nel senso più preciso del termine e in quello etimologico latino di “maschere”) del dramma umano. Questa sezione è denominata appunto “Persona”.

In mezzo alla piccola sala uno strano “congegno” circolare, e per questo infinito, ricrea in piccolo al suo interno una sorta di “diorama” a due livelli. Quello in basso dai toni caldi e ancor più tragici di abiti dismessi bagnati di sangue – segnale di un trapasso avvenuto – è stato chiamato “Lacrimosa”. Quello in alto, dove la realtà si trasfigura in una luce così vivida da far scomparire i contorni e il paesaggio, e da ridurre i corpi degli uomini a semplici e indistinte ombre, è “Libera me”.

Scriveva Calvino riguardo a “Una Questione Privata” di Fenoglio: “Ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché”.

E’ così che le immagini del fotogiornalista Majoli, scattate per documentare il genocidio in Rwanda, o colte in altre occasioni in giro per il mondo, vengono qui ripensate come una metafora della condizione umana nel teatro del mondo.